GLOSSARIO

GIUDICE

Autorità che ha la competenza di emettere giudizi su questioni particolari.

Organo dello Stato che impersona la funzione giurisdizionale di applicazione delle norme giuridiche ai casi concreti attraverso un provvedimento singolare e concreto.

È un soggetto processuale che, all’interno della dinamica del processo riveste, rispetto agli altri soggetti, una posizione di terzietà e imparzialità, mentre, rispetto agli altri poteri dello Stato, si caratterizza per l’autonomia e l’indipendenza in quanto sottoposto soltanto alla legge.

Si suole distinguere tra g. ordinari e g. speciali.

Autonomia del giudice

Il G. si trova in una posizione di effettiva terzietà dagli altri poteri dello Stato.

La libertà di giudizio del g. viene assicurata anche attraverso la sua indipendenza interna dagli altri magistrati che sono «inamovibili» e che si distinguono solo per «diversità di funzioni», non sussistendo tra loro un rapporto di tipo gerarchico.

Il G. amministra la giustizia «in nome del popolo» ed è  soggetti soltanto alla legge;

Diretti a garantire la posizione di equidistanza del g. rispetto alle parti e l’imparzialità del giudizio sono gli istituti dell’astensione e della ricusazione.

Parimenti tendente a garantire l’imparzialità del g. è la disciplina della responsabilità dei g. secondo la quale:

ha diritto al risarcimento del danno il cittadino, che ha subito un danno ingiusto in conseguenza di un comportamento commesso con dolo o colpa grave del g., o per diniego di giustizia (rifiuto, omissione o ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio).

L’azione relativa alla responsabilità del g. (esperibile solo dopo l’infruttuoso esaurimento dei mezzi ordinari di impugnazione dell’atto lesivo) è diretta contro lo Stato, il quale potrà successivamente esercitare un’azione di rivalsa contro il magistrato responsabile dell’illecito.

 

GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

La giustizia amministrativa – che nell’esperienza giuridica si caratterizza tradizionalmente rispetto ad altre espressioni note di giustizia, rilevanti per il rapporto con il diritto, come la giustizia civile o penale – è il complesso dei mezzi di tutela amministrativa e giurisdizionale cui qualsiasi soggetto, privato o pubblico, può ricorrere per tutelare la propria posizione giuridica nei confronti della pubblica amministrazione, laddove questa assuma una posizione di supremazia nello svolgimento della sua attività, e ottenere quindi una pronuncia oggettiva e imparziale in merito alla controversia.
Tali garanzie – che alcuni definiscono giustiziali – si distinguono sia da quelle politiche, cioè dai controlli parlamentari sull’attività del potere esecutivo, sia da quelle amministrative, ossia dai controlli amministrativi d’ufficio, preventivi e successivi, sugli atti di amministrazione attiva, anche in funzione di autotutela (in quest’ambito, i mezzi di tutela amministrativa sono affidati a organi della stessa o di altra amministrazione, che esercitano tale attività in forme non giurisdizionali).
 

GIURISDIZIONE

L’attività dello Stato diretta all’attuazione della norma giuridica nel caso concreto, e l’insieme degli organi cui è demandata tale funzione.

Nell’età feudale si ebbe una moltiplicazione delle g., conseguente al dissolvimento dello Stato.

La qualità di magistrato e il diritto di g. erano uniti al possesso del feudo, e vi erano perciò tanti distretti di g. quanti i feudatari, coordinati gerarchicamente come questi ultimi.

La g. ordinaria feudale si distingueva in alta e bassa, secondo che avesse, o no, la potestas/potestas gladii.

L’imperatore era il giudice supremo in tutti i luoghi dove la sua autorità era riconosciuta.

Presiedeva personalmente, o per mezzo del conte di palazzo, il tribunale palatino, che funzionava nel luogo della sua abituale residenza.

Nei luoghi dai quali l’imperatore era assente esercitavano la sua g. i vicari imperiali.

Nell’età comunale la g. imperiale si ridusse in realtà in confini sempre più angusti, mentre i nuovi organismi politici, allargando o consolidando progressivamente la propria autonomia, esercitavano una g. sempre più ampia.

Gli Stati che si andavano a mano a mano formando, esercitarono l’attività giurisdizionale mediante organi di diverso nome, mentre il potere assoluto dei principi riusciva a sua volta a spegnere le autonomie comunali.

Ne sofferse anche la g. della Chiesa, alla quale è dovuto il più complesso sviluppo di istituti giurisdizionali durante il Medioevo.

Il quadro si semplificò dopo la Rivoluzione francese.

Esenzione degli Stati dalla g. interna

Il diritto internazionale impone a tutti gli Stati di astenersi dall’esercizio della propria giurisdizione nei confronti degli altri Stati.
Tale obbligo, di natura consuetudinaria e connaturato alla struttura paritaria della comunità internazionale, ha subito, nel suo contenuto, notevoli evoluzioni.

Fino alla metà del 19° sec. nel diritto internazionale era generalmente riconosciuto che uno Stato estero non potesse essere assoggettato ad atti di autorità da parte di un altro Stato in ragione dell’assenza di qualsiasi gerarchia tra Stati sovrani (parem in parem non habet iudicium).

Questa regola, della cosiddetta immunità assoluta dalla g. è stata revisionata dopo la Prima guerra mondiale, parallelamente all’ampliamento dell’attività economica degli Stati, impegnati sempre più di frequente in transazioni di carattere privatistico che nulla avevano in comune con l’esercizio del potere statale a tutela del quale l’immunità assoluta era stata concepita.

Sono state la giurisprudenza italiana e quella belga a dare inizio a un’inversione di tendenza che ha portato all’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta o relativa.

Secondo questa teoria, oggi prevalente, l’esenzione degli Stati stranieri dalla g. è limitata ai soli atti compiuti dagli organi addetti alle relazioni interne o esterne nell’esercizio delle loro competenze o funzioni pubbliche (atti iure imperii).

L’immunità, che può essere sempre oggetto di rinuncia da parte dello Stato straniero, non si estende invece agli atti iure gestionis, cioè compiuti dagli Stati in condizioni di parità con i privati (come l’acquisto di un immobile o l’emissione di prestiti obbligazionari).

Alla stessa distinzione fa capo il regime dell’immunità da azioni esecutive dei beni di uno Stato straniero, nei cui confronti l’esecuzione forzata deve ritenersi ammissibile solo se esperita su beni non destinati a una pubblica funzione. Data la difficile applicabilità ai singoli casi concreti della distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis, si rimette alla discrezione del giudice interno valutare se, in caso di dubbio, debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della sottoposizione dello Stato straniero alla giurisdizione. Tuttavia, la tendenza della giurisprudenza interna è incline a individuare la regola nell’immunità e l’eccezione nell’esercizio della giurisdizione. A questa prassi si adeguano anche le convenzioni internazionali adottate in materia, allo scopo di creare una disciplina comune per gli Stati contraenti.

A parte alcune convenzioni aventi per oggetto settori particolari (come l’immunità delle navi di Stato e delle navi da guerra, o degli aeromobili adibiti a servizi di Stato), il primo strumento internazionale di carattere generale adottato nella materia è la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla immunità degli Stati del 1972, entrata in vigore nel 1976.

Ispirandosi alla concezione restrittiva dell’immunità, tale convenzione stabilisce la regola dell’immunità, indicando in via di eccezione i casi in cui una parte non può invocarla.

Ciò si verifica quando la parte in questione accetta, espressamente o con comportamenti concludenti, la g. del tribunale di un’altra parte o in caso di procedimenti relativi a situazioni che si collegano alla attività iure gestionis dello Stato, come controversie in materia di lavoro, contratti commerciali, partecipazione a società o attività industriali, proprietà e altri diritti reali, proprietà intellettuale, riparazione di un danno morale o materiale.

Al livello universale, la Convenzione dell’ONU sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, adottata nel 2004 e non ancora in vigore, segue il modello della Convenzione europea, afferma il principio dell’immunità, con una serie di eccezioni analoghe a quelle sopra indicate.

Innovativa è la prassi giurisprudenziale manifestatasi recentemente in diversi paesi – e che in Italia ha avuto origine dalla sentenza della Corte di cassazione n. 5004 del 2004 nel caso Ferrini – tendente ad affermare, in deroga al principio dell’esenzione, la competenza dei tribunali interni a pronunciarsi su reclami presentati contro uno Stato estero dalle vittime di crimini internazionali.

La g. ecclesiastica

Il Codex iuris canonici non ne fornisce una definizione. Tenendo però conto dei suoi elementi essenziali, essa può essere definita come la pubblica potestà, conferita da Cristo alla Chiesa, di reggere e organizzare pastoralmente il popolo di Dio, per il conseguimento dei fini che gli sono propri e del fine supremo che è la vita eterna. La potestà di governo (potestas regiminis) è detta anche potestà di g. (potestas iurisdictionis).

La potestà di governo sussiste nella Chiesa per istituzione divina. In quanto è indipendente nella sua esistenza e nella sua attività da qualsiasi autorità umana (can. 747, par. 1, e 1254, par. 1), la Chiesa possiede non solo il potere di ordine, ossia il potere di compiere e amministrare le cose sacre, ma anche quello di g. o di governo, ossia il potere di reggere e guidare socialmente i fedeli, nella sua triplice funzione legislativa, giudiziaria e amministrativa o esecutiva, cui si unisce anche il potere dottrinale o di magistero.

In diritto canonico si parla anche di g. in un senso più stretto e più affine a quello dato alla locuzione dal diritto laico: in questo senso g. è il potere di esaminare una controversia e di definirla con l’emanazione di una sentenza. Vi sono materie che la Chiesa rivendica alla propria g. esclusiva (per es., dichiarazioni di nullità del matrimonio), altre sulle quali la Chiesa ammette la concorrenza della propria g. con quella dello Stato (per es., testamento con la fondazione/”>fondazione di un legato pio), altre infine circa le quali la Chiesa riconosce la g. statale. Invece è vivamente controverso, sulla base degli art. 23 del Trattato dei Patti Lateranensi e 8 dell’Accordo di revisione del Concordato, se lo Stato riconosca la g. ecclesiastica.

COMMON LAW

Sistema giuridico dei Paesi anglo-americani, sviluppatosi in Inghilterra a partire dal 1066, quando Guglielmo I sconfisse nella battaglia di Hastings gli Anglosassoni.

Nello svilupo di tale sistema ebbe parte importante l’organizzazione rigidamente feudale dei re normanni, articolata attorno alla corte del re, la cosiddetta curia regis. Essa era formata da un nucleo di giudici-giuristi che avevano la loro sede principale nelle tre Corti centrali di Westminster, ma che venivano spesso inviati nelle province ad amministrare la giustizia in nome del re e godevano pertanto di particolare prestigio in tutto il regno.
Ciò portò alla creazione di un diritto unitario, chiamato appunto c., che comprendeva il complesso di consuetudini dei popoli germanici e il diritto feudale.
Le consuetudini particolari del periodo anglosassone, pur non essendo mai state abrogate sul piano formale, cedettero gradualmente il passo al diritto applicato dai giudici inglesi, i quali, tra l’altro, si servirono del diritto romano per colmare le lacune del diritto nazionale.
Nel corso del 16° sec. le formalità procedurali crearono una certa insofferenza nel pubblico inglese, che prese a rivolgere petizioni direttamente al sovrano per ottenere la concessione di particolari mezzi di tutela.
Le istanze venivano trattate dal cancelliere, il capo della cancelleria regia (Court of Chancery), chiamato a garantire che la giustizia venisse resa «secondo coscienza». Le sue decisioni, che avevano la forma di decreti, operavano in personam e vincolavano soltanto le parti in causa.
La Court of Chancery venne lentamente ad affermarsi come organo giurisdizionale competente ad amministrare un corpo di norme giuridiche, indicato con il termine equity.
Questo non rappresentava un sistema giuridico diverso dal c., bensì una sua parte integrante, che con il passare degli anni divenne sempre più significativa.
Nel corso del 17° sec. l’Inghilterra fu tormentata da una lunga guerra civile tra la monarchia, che voleva garantirsi l’assolutismo, e il Parlamento, che uscì vittorioso grazie anche al sostegno dei giuristi. I common lawyers sostennero con successo l’indipendenza dei giudici dal re e la stabilità nella loro carica. Tale risultato venne raggiunto con l’Act of settlement del 1701 che assicurò ai giudici inglesi l’indipendenza e l’inamovibilità. Da quel momento il c. divenne un importante strumento di tutela del cittadino rispetto alle prerogative assolutistiche del re, e attraverso i classici Commentaries (1765) di W. Blackstone assurse a simbolo della storia inglese.

Nel corso dell’Ottocento – mentre l’Inghilterra attraversava una profonda crisi politica e sociale – si avvertì diffusamente l’esigenza di riformare il diritto tradizionale.
Con il Judicature Act (1873) fu avviata la riorganizzazione dei tribunali: venne istituita la Supreme Court of Judicature (1875), composta dalla High Court of Justice e dalla Court of Appeal; con la istituzione della House of Lords (1876) si definì un sistema giudiziario su tre livelli di istanze; fu riorganizzato il sistema di raccolta della giurisprudenza più importante; le norme del c. (in senso stretto) vennero fuse con quelle dell’equity e tutti i giudici della Supreme Court furono abilitati ad applicare entrambi i sistemi di norme.
Fissato l’ordine gerarchico delle corti di giustizia, si crearono le basi per accogliere la moderna teoria del precedente, nota come principio dello stare decisis.
In base a tale principio, le decisioni rese dalle corti superiori in un precedente caso analogo sono considerate vincolanti per i giudici delle corti inferiori, e la parte vincolante di una decisione precedente è rappresentata dalla ratio decidendi (il fondamento della decisione), che viene individuata non già dai giudici che decidono il caso ma da quelli che devono stabilire se la decisione costituisce o meno un precedente per essi; la natura di precedente viene riconosciuta quando i fatti rilevanti del caso anteriore sono gli stessi fatti rilevanti del caso attualmente in decisione.
Negli Stati Uniti d’America, eredi del c. inglese, lo stare decisis è considerato dai giudici non tanto come una regola giuridica da seguire in ogni caso, ma come principio di policy, dettato cioè da ragioni di giustizia e di convenienza.
Pertanto, qualora si presentino ragioni sostanziali atte a giustificare una soluzione diversa per i casi successivi, il precedente, sebbene teoricamente applicabile, può essere distinto, modificato o addirittura, eliminato.
Tale potere dei giudici è espressione del fatto che nei paesi di c. lo sviluppo organico e moderno del diritto è affidato non già alla dottrina (come nei paesi di civil law), ma alla responsabilità dei giudici e della giurisprudenza.
Anche in Inghilterra il principio del precedente vincolante non è più applicato in maniera rigida, come avveniva in passato.
Tuttavia, il modo di ragionare del giudice anglo-americano diverge da quello adottato nei paesi di civil law; ricorrendo al metodo induttivo, egli prende in considerazione i singoli precedenti che gli vengono sottoposti dagli avvocati delle parti in causa, traendone le soluzioni per risolvere singoli casi concreti.
Nell’interpretazione della legge l’intervento del legislatore è fortemente limitato: qualora si discosti dal c., la legge scritta (statute law) viene ad assumere un carattere del tutto eccezionale, e deve pertanto essere interpretata in modo restrittivo.
A differenza di quanto accade nei paesi di civil law, la legge scritta ricopre quindi un ruolo secondario nel sistema delle fonti.

DIRITTO ROMANO

Insieme delle norme giuridiche che regolavano la società romana antica.
Il d.r. fu riordinato dall’imperatore Giustiniano nel Corpus iuris civilis.
Le compilazioni di Giustiniano raccolsero l’eredità più importante del d.r., ma tali raccolte in realtà non entrarono in vigore in Occidente, risultando vani i vari tentativi di riconquistare i territori occupati dai germani.
Il declino dell’Impero e l’influenza delle popolazioni germaniche ridimensionarono notevolmente il ricorso agli istituti giuridici dell’antichità, applicati soltanto dai romani, in quanto le tribù germaniche conservarono intatto il loro diritto consuetudinario.
L’isolamento in cui venne a trovarsi il d.r. classico nel Medioevo comportò una sua trasformazione in d.r. volgare, che prevalse in Italia e nel Sud della Francia.

DIRITTO CONSUETUDINARIO

Fonte di diritto costituita dalla ripetizione costante di un determinato comportamento da parte della generalità dei soggetti, accompagnato dalla convinzione della sua obbligatorietà giuridica.
Nelle materie riservate alla legge e ai regolamenti la consuetudine vale solo se espressamente richiamata.
Nel diritto romano classico la consuetudine ebbe un posto di preminenza; nel diritto germanico fu a lungo unica fonte del diritto.
In seguito la legge scritta ha teso a prevalere.
Nel processo evolutivo del diritto, quando la legge non più adatta alle condizioni sociali viene meno, la consuetudine riprende il sopravvento, per lasciare più tardi il posto a una nuova legge più rispondente alle nuove esigenze.

IUS COGENS

Nel diritto internazionale, norme di carattere imperativo (ossia cogenti, inderogabili).
Tale nozione si affermò alla fine degli anni 1960, su pressione dei paesi socialisti e di quelli in via di sviluppo, per i quali esistevano alcune norme fondamentali, formatesi in via consuetudinaria, aventi una posizione gerarchicamente superiore rispetto alle altre norme internazionali.
Oltre al diritto all’autodeterminazione dei popoli, vi rientrano il divieto di aggressione e le forme più gravi di violazione di diritti umani fondamentali (genocidio, schiavitù, tortura, apartheid).
Malgrado i dubbi avanzati dai paesi occidentali circa l’esistenza di norme imperative di diritto internazionale, la contrarietà a tali norme fu inserita tra le cause di nullità assoluta degli accordi internazionali nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (art. 53 e 64).
Tale Convenzione prevede la giurisdizione obbligatoria della Corte internazionale di giustizia in caso di controversie relative all’applicazione o all’interpretazione delle norme imperative (art. 66), ma non contiene un elenco esemplificativo di dette norme, limitandosi a stabilire che è una norma di ius cogens quella accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale nel suo insieme come norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che può essere modificata solo da una nuova norma del diritto internazionale avente lo stesso carattere.
La prassi successiva, soprattutto giurisprudenziale, ha contribuito a consolidare l’idea dell’esistenza dello ius cogens internazionale, anche se permane la contrarietà a tale nozione da parte di alcuni Stati e mancano, finora, casi di applicazione delle norme della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati sopra richiamate.

DEMOCIDIO

Democidio è un termine coniato dal politologo Rudolph Joseph Rummel per “l’assassinio di qualsiasi persona o genti da parte di un governo, tra cui il genocidio, l’omicidio politico e di massa”.

Rummel creò questo termine per includere tutte le forme di omicidio che vengono compiute dal governo o da organi governativi che non vengono coperti dalla definizione giuridica di genocidio.

Secondo Rummel, il termine genocidio ha tre significati distinti. Quello normalmente utilizzato, cioè quando un governo ordina l’assassinio di popoli per via della loro nazione, religione o razza. Il significato giuridico si riferisce alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio adottata il 9 dicembre 1948. Questo include anche atti non volti all’omicidio ma che hanno come obiettivo finale l’eliminazione di un gruppo, come la prevenzione delle nascite o il trasferimento forzato di bambini del gruppo in un altro gruppo. Il significato di genocidio in ambito giuridico è simile a quello ordinario, ma comprende anche gli omicidi governativi di oppositori politici o differenti omicidi intenzionali. È per evitare la confusione che si crea fra i due significati che Rummel coniò il termine democidio per indicare il terzo significato.

Rummel definisce il democidio come “l’assassinio di una qualsiasi persona o gruppo di persone da parte di un governo, tra cui il genocidio, l’omicidio politico e l’omicidio di massa”. Per esempio, le uccisioni promosse o provocate dal governo per motivi di finalità politica, sarebbero da considerare democidio. Rummel esclude esplicitamente i morti in battaglia nella sua definizione. La pena di morte, le azioni intraprese contro civili armati durante una mobilitazione o una sommossa e la morte di non combattenti uccisi durante gli attacchi contro obiettivi militari, fintanto che l’obiettivo primario è militare, non vengono considerati come casi di democidio.

Alcuni esempi di democidio citati da Rummel sono le Grandi purghe volute da Joseph Stalin in Unione Sovietica, le morti causate dalla polizia coloniale nello Stato Libero del Congo e il Grande balzo in avanti di Mao Zedong che provocò una carestia che uccise milioni di persone. Secondo Rummel, questi non sono stati casi di genocidio, perché coloro che sono stati uccisi non sono stati selezionati sulla base della loro razza o altro, ma sono stati uccisi in gran numero come risultato di politiche governative. La Carestia è classificata da Rummel come democidio solo se corrisponde alla definizione sopra indicata.

PAURA

Non abbiate paura.
Non scoraggiatevi.
Non sentitevi soli, lontani o separati
siamo tutti parte l’uno dell’altro.
Memorabili antenati hanno forgiato il nostro glorioso passato,
e al loro giudizio immortale dobbiamo il riscatto del nostro presente.
Perché questo è il nostro naturale destino
essere ciò che siamo da sempre
un Popolo e una Nazione.
Nel modo in cui l‘oppressione spartisce sofferenze e non da pane,
così la quiete non soggiace a lungo in un Popolo esasperato.
Se serve siate EROI.
WSM
Venetia, 7 luglio 2015
Sergio Bortotto, Presidente del MLNV e del Governo Veneto Provvisorio.

La paura, insieme a tristezza, gioia, disgusto e rabbia, è una delle emozioni fondamentali degli esseri viventi, ci mette in guardia dai pericoli e ci spinge alla sopravvivenza.

 

STORIA … LA NOSTRA

Nello specifico della “storia veneta” intendiamo riferirci al ricordo e alla narrazione di avvenimenti, episodi, tradizioni, luoghi e personaggi che nel loro insieme, costituisco il vissuto del Popolo Veneto e che hanno contribuito, nel corso del passato, a valorizzarne la peculiare civiltà.

IL POPOLO VENETO… OGGI!
Come vascelli privi di timone
sciolti dai nostri ormeggi e privati della nostra rotta
siamo come naufraghi alla deriva in un mare ignoto
sradicati e separati da ciò che siamo
mortificati stiamo a casa nostra come domestici diseredati
siamo come prole di chi non ci è madre
e come avida nutrice d’inganno ci sostiene
Ma è tempo
ciò che d’insulto ci estorce dignità
di ribellione propagherà l’impulso
solleverà fiero lo sguardo il mite
al giusto non mancherà ricordo
all’audace non farà difetto il fato
Di tirannica sepoltura non si conserverà ricordo.

Non abbiate paura.
Non scoraggiatevi.
Non sentitevi soli, lontani o separati
siamo tutti parte l’uno dell’altro.
Memorabili antenati hanno forgiato il nostro glorioso passato,
e al loro giudizio immortale dobbiamo il riscatto del nostro presente.
Perché questo è il nostro naturale destino
essere ciò che siamo da sempre
un Popolo e una Nazione.
Nel modo in cui l‘oppressione spartisce sofferenze e non da pane,
così la quiete non soggiace a lungo in un Popolo esasperato.
Se serve siate EROI.

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