Autore: sergio

COLONIALISMO

Il termine indica anche, in senso stretto, il dominio coloniale mantenuto da diversi Stati europei su altri territori extraeuropei lungo l’età moderna e indica quindi il corrispettivo periodo storico, cominciato nel XVI secolo, contemporaneamente alle esplorazioni geografiche europee, assumendo nel XIX secolo il termine di imperialismo, e formalmente conclusosi nella seconda metà del XX secolo, con la vittoria dei movimenti anti-coloniali.
Il termine indica anche l’insieme di convinzioni usate per legittimare o promuovere questo sistema, in particolare il credo che i valori etici e culturali dei colonizzatori siano superiori a quelli dei colonizzati.

CODICE ETICO

DEFINIZIONE
Il codice etico è uno dei principali documenti che rappresentano il Movimento di Liberazione Nazionale del Popolo Veneto (MLNV).
È la regola per eccellenza ovvero il caposaldo etico del MLNV.
È un documento scritto per agevolare il nostro riferimento ai principi cardine dei nostri intenti.
È rivolto ai membri del Direttivo ma anche a tutti coloro i quali hanno deciso di condividere e partecipare al percorso intrapreso dal MLNV.
Condivisione e partecipazione sono due vincoli essenziali per essere e sentirsi parte del MLNV.
L’ideale del MLNV, vale a dire l’incondizionato e totale ripristino di sovranità del Popolo Veneto sulle proprie terre d’origine, è il fine che tutti i membri e i partecipanti hanno in comune.
Ecco perché al MLNV non si partecipa con una sottoscrizione ma si aderisce intervenendo, secondo le proprie capacità e possibilità, alla comune lotta di liberazione.
Per partecipare è necessario comprendere prima e poi scegliere di autodeterminarsi e di rivendicare la propria sovranità, come Persona e come Popolo.
Attraverso la nostra “carta dei valori” viene stabilito il principio etico generale a cui devono ispirarsi tutti i membri del MLNV.
Orientati dalla tipicità culturale, dalle tradizioni e anche dalla comune fede ai principi e valori cristiani del Popolo Veneto, tutti i membri devono adottare criteri di
  • trasparenza,
  • correttezza,
  • efficienza,
  • spirito di servizio,
  • collaborazione
  • e reciproca valorizzazione.
Con la carta dei valori il MLNV adotta indicatori morali inalienabili e coerenti col fine che si è preposto.
Alla luce di tali principi coniamo la nostra dottrina dei doveri per attribuire ai nostri comportamenti un compatibile status deontologico.
MEMBRI DEL MLNV  E PERSONE INTERESSATE – RAGGIO D’APPLICAZIONE
Tutti i membri di ogni ordine e grado del MLNV partecipano e cooperano con onorabilità e secondo le proprie reali possibilità alla realizzazione della missione.
Il concorso personale è determinato dalle capacità e dalle possibilità individuali uniformate se possibile alle proprie aspirazioni.
Alla realizzazione e allo sviluppo della missione possono concorrere soggetti latori di comuni e condivisibili interessi anche se per ragionevoli motivazioni non intendano rendere pubblica la loro partecipazione e cooperazione.
I membri di ogni ordine e grado del MLNV sono tenuti a ispirarsi e conformarsi ai principi del presente codice etico.
FONDAMENTO GIURIDICO DEL MLNV
Il MLNV è un soggetto di diritto internazionale qualificato dalla sua legittimazione internazionale basata sul diritto all’autodeterminazione del Popolo Veneto.
MISSIONE DEL MLNV
Rivendicazione del diritto di autodeterminazione del Popolo Veneto.
Ripristino di sovranità del Popolo Veneto.
Progettazione e cooperazione per la rifondazione della Repubblica Veneta.
RADICI STORICHE, CULTURALI ED ETICHE
Il MLNV approva e si identifica nel principio per il cui il Popolo Veneto e la Serenissima Repubblica Veneta fondano le radici storiche, culturali ed etiche sulle proprie origini cristiane.
CONDOTTA
L’etica per la quale si è costituito il MLNV stabilisce che lo status deontologico della politica e di ogni condotta sia conforme a tali criteri e per i soli fini per i quali si è costituito concretandosi in  comportamenti leciti e moralmente giusti.
L’onestà rappresenta il principio basilare per tutte le attività del MLNV, le sue iniziative e le sue comunicazioni e la stessa gestione organizzativa.
I rapporti a tutti i livelli, devono essere improntati a criteri e comportamenti educati, di collaborazione, sincerità e reciproco rispetto.
Tutti i membri sono tenuti alla massima trasparenza nei propri intenti e nei rapporti, come pure ad un’adeguata riservatezza nella trattazione dei compiti affidatigli.
PRINCIPIO DI VALIDITA’ LEGALE
Il MLNV si impegna a rispettare tutti i principi morali etici e civili e i Patti internazionali ispirati da questi.
SOVRANITA’ PERSONALE
Il MLNV riconosce ogni essere umano come Persona, espressione della propria personalità derivante dalla propria originale individualità e come tale titolare di una propria identità e sovranità personale.
POPOLO VENETO
Il MLNV si riconosce e si identifica nel Popolo Veneto quale comunità di Genti Venete che hanno diritto di essere libere e sovrane sulle proprie terre d’origine secondo la specificità della propria cultura, della propria storia, della propria fede cristiana (*), delle proprie tradizioni e delle proprie origini etniche.
SVILUPPO, PROGRESSO E MUTUO CONSENSO
Il MLNV ritiene che il Popolo Veneto debba promuovere l’interazione fra i propri membri per il perseguimento dello sviluppo e il comune progresso secondo i propri usi, costumi e tradizioni, determinando criteri, organizzazione e livelli di autonomia sociale armonizzandoli attraverso il mutuo consenso.
NAZIONE VENETA
Il MLNV ritiene e promuove il diritto del Popolo Veneto di affermarsi come Nazione fra le Nazioni e abbia diritto di determinarsi come entità statuale e come tale di legiferare e stabilire il proprio ordinamento con leggi, statuti, codici, norme, e regolamenti aventi valore nei confronti di tutti i membri della società che liberamente hanno deciso di farvi parte.
WSM
Venetia, mercoledì 3 luglio 2013
Sergio Bortotto
Presidedente del MLNV e del Governo Veneto Provvisorio

* il Vangelo di San Marco è cronologicamente il primo dei quattro Vangeli canonici

LA CITTADINANZA VENETA

SEZIONE 04 – ARTICOLO 04
Il cittadino veneto esiste e si identifica come parte integrante della comunità di “Genti Venete” libere e sovrane sulle proprie terre d’origine per diritto naturale.
La cittadinanza veneta è acquisita da ogni membro emancipato della società che liberamente sceglie di farne parte.
La cittadinanza veneta attribuisce comuni diritti civili e politici e fondamentali doveri cui si è tenuti.
I diritti civili derivanti dalla cittadinanza veneta sono attribuiti di diritto ad ogni persona di origine veneta fin dal proprio concepimento e fino alla propria emancipazione, senza alcuna distinzione di sesso, razza, condizione fisica e psichica e a prescindere da qualsiasi vincolo di patrimonio genetico attribuibili a specifici tratti razziali.
I diritti politici e gli obblighi derivanti dalla cittadinanza veneta impegnano ogni cittadino a concorrere con gli altri membri della comunità ai doveri sociali e di stabilire comunemente il proprio ordinamento con statuti, codici, norme e regolamenti che in quanto tali hanno valore e forza legale per l’intero Popolo.

IL CAPO CARISMATICO

RIFLESSIONI
(tratto da un testo di Francesco Alberoni)
Il capo carismatico
Ogni movimento esprime sempre dei capi che vengono riconosciuti dagli altri come gli unici a a guidare il movimento perché posseggono qualità straordinarie (carismi).
All’inizio il capo è solo uno dei tanti, poi diventa il primus inter pares, in seguito diventa il condottiero, la guida infallibile.
È stato Max Weber ad identificare il potere carismatico come una delle tre forme di potere legittimo (gli altri sono quello tradizionale e quello burocratico).
Di solito si afferma chi ha una idea vincente o quando dimostra una superiore capacità strategica e organizzativa.
Di qui un corollario importante: tutti i membri del gruppo allo stato nascente sono potenzialmente dei capi carismatici.
La speciale temperie emotiva, il senso di partecipare ad un grande compito di liberazione, l’esperienza fondamentale danno, anche a quelli che appaiono solo dei gregari, un impronta speciale, un carisma che si rivela quando agiscono nel mondo esterno.
Allora si comportano come dei capi carismatici, trascinano con se altra gente, creano altri gruppi, innescano altri processi di stato nascente.
No al mito del capo carismatico
Quando un capo si è affermato, quando ha sconfitto tutti i suoi avversari e messo in moto un grandioso processo di trasformazione, quando ha preso e consolidato il suo potere, chiunque egli sia stato, qualsiasi cosa abbia fatto, viene divinizzato.
Guardando i movimenti collettivi nel loro complesso vediamo che molti capi carismatici non sono dotati di qualità eccelse.
A volte sono degli agitatori particolarmente abili, a volte dei grandi oratori, a volte dei violenti, a volte dei temerari, a volte dei ciarlatani, a volte dei pazzi.
Oppure, preso il potere, si sono trasformati rapidamente in despoti e sono stati abbandonati dai seguaci.
Anche senza arrivare a questi estremi troviamo spesso capi che non sono all’altezza della situazione.
Vi sono però anche dei grandi capi carismatici che, nella loro vita sono riusciti a trasformare turbe sbandate in confraternite, partiti, eserciti organizzati.
Le istituzioni di dominio … no al fanatismo
Il movimento ha bisogno di una guida, di un capo.
Questo capo emerge dal calore bianco dell’entusiasmo dalla speranza di un rinnovamento radicale.
Talvolta è lui stesso che mette in moto il processo, di solito si fa strada nel fuoco delle agitazioni.
All’inizio comunque egli non si proclama capo, soprattutto nello stato nascente egli è solo il primus inter pares.
Col successo del movimento e trionfando sui suoi avversari a poco a poco viene riconosciuto da tutti e, poiché il movimento promette qualcosa di straordinario, egli stesso diventa straordinario: un capo carismatico.
Sul capo carismatico vengono proiettate tutte le qualità e tutte le virtù il “culto della personalità“ avviene spontaneamente, sono i seguaci stessi che innalzano il loro capo e lo adorano.
Il carisma però, ce lo ricorda Max Weber, è precario, si rafforza solo attraverso il successo, con la sconfitta può svanire.
E svanisce spontaneamente anche col passare del tempo perché nessun capo è in condizione di realizzare i sogni dorati dello stato nascente.
Compaiono critiche, invidie, concorrenti.
Per questo il capo carismatico, quando ha raggiunto i potere politico è portato a stabilizzarlo dichiarando che gli obbiettivi verranno realizzati e nel frattempo si libera di tutti gli avversari reali e potenziali.
Usando questo infernale meccanismo i capi della rivoluzione francese si sono sterminati l’uno dopo l’altro, lo stesso hanno fatto i capi della rivoluzione sovietica e quelli della rivoluzione cinese fino alla uccisione del membri della “banda dei Quattro“.
La divinizzazione del capo carismatico ha sempre, come corrispettivo, l’elaborazione paranoica di un nemico totale.
Il modo in cui il capo consolida il suo potere assoluto è l’asservimento morale.
E come la ottiene?
Chiedendo a ogni individuo di sacrificare proprio ciò che per lui è essenziale, di compiere un atto mostruoso, come denunciare o uccidere la moglie, un amico, il padre, il figlio. Facendo questo egli perde ogni capacità di giudizio morale.
Le cose non cambiano quando al posto di un unico capo carismatico c’è un gruppo una assemblea, un comitato di salute pubblica che impone la fraternità col terrore come nella rivoluzione francese.
È l’asservimento morale che porta alla formazione del fanatico.
Il fanatico non è semplicemente uno che crede fortemente.
E un individuo che è stato asservito moralmente.
Un individuo che ha accettato di compiere azioni in totale contrasto con i suoi convincimenti.
Il fanatico è uno che ha tradito, nella sua essenza, l’esperienza di liberazione, di fratellanza e di verità dello stato nascente.
Per questo ha perso la sua anima.
Può solo ubbidire e uccidere.
Le istituzioni di convivenza
Nelle fasi iniziale dei movimento gli individui sanno con chiarezza di essere portatori di diritti umani fondamentali e inalienabili.
Eppure pochi anni dopo la proclamazione dei diritti dell’uomo in Francia c’era il terrore e non uno solo di questi diritti veniva rispettato.
Eliminato un sovrano dispotico il movimento stesso e aveva eretto un sovrano collettivo – la Convenzione rivoluzionaria – ancora più dispotico e sanguinario.
Per evitare che nella situazione rivoluzionaria, nasca un nuovo più terribile dispotismo, bisogna che i rivoluzionari per prima cosa pongano dei limiti alla propria spontanea pressione verso l’unanimità che tende a generare una assemblea o un capo carismatico onnipotente che viola i diritti appena proclamati.
Questa è l’essenza delle istituzioni di convivenza.
Se il movimento non si auto impone un tale limite, genererà inevitabilmente un nuovo dispotismo.
La strada che allontana dalla democrazia
È solo ed esclusivamente nello stato nascente che esiste l’esperienza della coincidenza della volontà individuale autentica e della volontà generale e questa esperienza svanisce con esso.
Tutte le dottrine politiche, siano esse liberali, anarchiche, marxiste o islamiste, che promettono istituzioni capaci di conservare la coincidenza fra volontà individuale e volontà generale (profana o divina) producono totalitarismi.
La strada che conduce alla democrazia
All’estremo opposto del pensiero francese che ha il suo padre in Rousseau che vede emergere la costituzione dal contratto sociale creatore di una Volontà Generale senza limiti, la scuola inglese fa nascere lo Stato e la Costituzione solo dal freddo calcolo razionale.
Ciò che unisce gli uomini non è l’entusiasmo, la fede, il movimento, al contrario è la riflessione, il calcolo della propria convenienza.
Essendo intelligenti, capiscono che possono cedere il loro potere a qualcuno in cambio della vita e della sicurezza.
Avendo ceduto il loro potere in questo modo al Sovrano, sarà lui che li costringerà a vivere insieme in una armonia predisposta dalla legge.
Il sovrano non può mai e poi mai andare contro i diritti naturali inalienabili dei suoi sudditi. Se il sovrano attenta alla proprietà e alla libertà, i cittadini hanno il diritto di insorgere.
Con questo edificio di esemplare chiarezza e semplicità Locke ha fornito il modello dello Stato costituzionale moderno.
Politica sociale di solidarietà
“La trasformazione sociale non solidaristica… produce disordine e al di là di un certo grado di disordine la società cessa di funzionare in modo regolare…
Appaiono allora i movimenti, potenze che rompono l’ordine costituito, veri e propri vortici collettivi che dividono chi era unito e uniscono chi era diviso.
E così si ricreano altri gruppi, altri campi di gravità sociale, altri tipi di fiducia e di speranza, con nuove mete collettive” .
Alberoni spiega chiaramente, che tecnica ed economia, da sole non tengono insieme le società.
Occorrono le rose della solidarietà e il pane del buon governo.
In secondo luogo, perché, come fa capire l’autore, la politica, pur non potendo impedire in assoluto i movimenti, dal momento che le società sono entità in divenire, può prevenirli, e con intelligenza recepirne le istanze migliori.
L’ideale
Nel film La conquista del paradiso di Ridley Scott, Cristoforo Colombo vecchio, sconfitto, incontra il Tesoriere di Spagna che lo rimprovera di essere un sognatore , un idealista.
Allora il grande navigatore gli mostra la città, i palazzi, le guglie svettanti verso il cielo e gli domanda cosa vede “La civiltà“ risponde l’altro.”
“ Ebbene – conclude Colombo – tutto questo è stato creato da idealisti come me.”
In questi ultimi tempi ho incontrato molta gente pratica, ambiziosa, capace di astute operazioni finanziarie o di abili manovre politiche.
E, più di una volta, ho chiesto loro perché lo fanno, quale è il significato ultimo della loro azione.
Mi sono accorto che, di solito, non capiscono nemmeno la domanda.
Perché voglio diventare professore universitario?
Ma è ovvio, perché ci tengo, per realizzarmi, per sentirmi chiamare professore, per avere prestigio.
E per motivi analoghi voglio diventare senatore, presidente, rettore, sindaco, ministro.
Solo in pochissimi ho percepito che quella meta, quel titolo, era solo lo strumento per uno scopo più alto, per realizzare una finalità più importante, una missione, una vocazione, un sogno, una visione.
Coloro che sono mossi da un desiderio spasmodico di potere e sono pronti a tutto per ottenerlo, possono salire molto in alto.
Le persone che si muovono per amore della ricchezza e del prestigio personale possono raggiungere risultatati importanti.
Però solo chi è mosso da una visione può fare ciò che gli altri non riescono nemmeno pensare, nemmeno immaginare e che giudicano una follia o una sciocchezza.
Gli uomini e le donne che hanno questo tipo di visione, sono completamente diversi dagli ambiziosi che hanno bisogno di ricchezze e di onori per sentirsi qualcuno.
Sono diversi dai fanatici che vogliono imporre al mondo il loro credo o il loro regime politico con la violenza.
Essi non vogliono dominare, vogliono creare.
L’impulso a creare non appartiene alla dimensione del prendere, ma del dare, non a quella dell’egoismo, ma dell’altruismo.
E anche il potere, in questo caso, è solo uno strumento per poter dare.
Il creatore, il costruttore, chi ha un sogno, non dà comandi ed esige ubbidienza per il gusto di vedere gente inchinarsi davanti alla sua potenza, ma per edificare insieme qualcosa che riguarda loro come lui.
Egli perciò concepisce il comando come un appello e l’ubbidienza come un assenso.
Tutti i creatori sono, per natura, dei capi perché vogliono cambiare gli altri, portarli su nuove strade e far sbocciare possibilità che nessuno riesce ancora ad immaginare.
Perché vogliono costruire nuove istituzioni, nuovi mondi, dove la gente viva meglio, realizzarsi più pienamente.
E pensano sia naturale che gli altri dicano di sì, che si associno al loro progetto.
Per questo non esitano a svegliare gli increduli, a trascinare gli inerti, a convincere i prigionieri delle abitudini e degli interessi quotidiani.
Perciò è naturale che molti di costoro resistano, o non capiscano.
Per questo i creatori sono costretti ad avanzare fra incomprensioni ed ostacoli.
Finché non hanno vinto, finché non hanno dimostrato che si poteva fare l’impossibile, raggiungere l’irraggiungibile.
Facci sognare
Dal vero capo ci si aspetta che sappia dare un senso alla nostra azione.
Gli americani usano una espressione che avrete sentito più volte anche voi al cinema “facci sognare!” … il popolo più pragmatico della terra non chiede qualcosa di concreto … ma chiede invece proprio quanto di più impalpabile, di più irreale ci sia, un sogno.
Perché, in realtà, l’unica cosa che veramente conti, mobiliti, dia forza alla gente e la trascini è un sogno.
Ogni grande impresa é nata da una fede, da un sogno che ha dato a un uomo la forza di superare gli ostacoli, le incomprensioni le invidie che gli interessi costituiti e meschini creano sulla strada.
Il capo non è colui che ha la titolarità del comando, il capo è colui che crea.
Nessuno tiene insieme uno Stato, una impresa, nemmeno una famiglia se non affronta e risolve continuamente nuovi problemi, se non crea, non inventa.
La storia è piena di re fannulloni che passavano il tempo a caccia o in cerimonie mondane, mentre il governo era in mano a capaci ministri o, nel califfato islamico, ai gran visir.
Perfino nella più addormentata repubblica, dove i polittici passano il loro tempo a tessere intrighi e vendette reciproche, sorgono sempre grandi personalità solitarie che imprimono una svolta alla politica, oppure creano imprese, giornali, istituzioni, opere d’arte.
È a loro che guarda la gente, è grazie a loro che resta viva la fiducia e la speranza.
Indicare la meta
La realizzazione di una impresa dipende sempre dall’apporto e dal consenso di molte persone.
Uno degli errori più gravi che può compiere un leader, è di pensare di aver realizzato tutto da solo, chiudersi nella sua sicurezza e non ascoltare le voci che gli danno informazioni, suggerimenti, oppure che lo avvertono degli errori e dei pericoli.
Ma a questo pericolo ne corrisponde uno opposto, la dispersione delle mete e la mancanza di una leadership energica, efficace, lungimirante capace di tener ferma la meta e rifare continuamente la rotta.
Una qualità essenziale tanto nel mondo politico come in quello produttivo.
Il leader di un movimento, il leader carismatico è colui che riesce a indicare la meta tenendo presente le innumerevoli spinte che vengono dal basso.
Egli viene ubbidito perché gli altri lo ritengono “il più adatto” “colui che sa” .
Al di fuori dei movimenti, quando una formazione politica si costituisce attraverso la coalizione di soggetti politici indipendenti, invece il capo deve essere essenzialmente un mediatore capace di trovare il consenso, la strada che permetta a tutti di ricavare un qualche vantaggio.
Ma è un lavoro difficile e che facilmente fallisce o non consente di realizzare grandi obbiettivi.
La trama deve essere tessuta e ritessuta continuamente.
Ma anche all’interno delle organizzazioni sorgono continuamente divergenze.
Per porvi rimedio, alcuni seguono la strada di moltiplicare le regole, di rafforzare la struttura burocratica.
Ma è un gravissimo errore.
Più la struttura si irrigidisce, più ogni singolo ufficio si preoccupa di aumentare il suo raggio d’azione, ogni singolo funzionario lavora per accrescere il suo potere, e moltiplica le pratiche, i divieti, le regole inutili.
Studiando le grandi organizzazioni vediamo che, spesso, la gente che vi lavora ha perso completamente di vista il fine per cui sono state costituite.
Ciascuno fa valere solo l’interesse della sua categoria, del suo gruppo.
Per questo motivo, ad un certo punto, si sente il bisogno “dell’uomo forte”, di un capo che sappia imporre un unico punto di vista.
Di un capo che costringa tutti ad una ubbidienza cieca, pronta ed assoluta.
Se questo capo arriva, in un primo tempo, il metodo ha successo.
Tutti corrono, finiscono le discussioni, i ritardi e le inefficienze.
Però, dopo qualche tempo, il capo onnipotente, che crede di poter fare tutto da solo, finisce per restare isolato, per perdere i contatti con le persone concrete, con i loro problemi, le loro aspirazioni, le loro speranze.
Non sa più come motivarle.
E lo stesso capita in politica.
Alcuni grandi leader politici, con questo atteggiamento oppressivo, hanno finito per soffocare la creatività della società civile.
La vera funzione del capo, perciò, non è quello di fare tutto, di pensare a tutto, di controllare tutto, di sostituirsi a tutti.
La sua funzione non è di imporre in ogni campo la sua volontà, di dare ordini minuziosi su ogni argomento, sterilizzando o frustrando la creatività degli altri.
Il leader è, prima di tutto, il custode della meta, colui che ricorda ed indica a tutti dove si deve andare, e controlla che la rotta venga tenuta.
Egli deve trasmettere, ad ogni livello dell’organizzazione, il senso della missione, il significato del compito e il senso del dovere.
E, per farlo, deve crederci profondamente.
Nessuno convince gli altri se non é convinto lui stesso.
Nessuno trasmette modelli se non li pratica personalmente.
Se non dà l’ esempio.
È con la sua energia, con la sua fede, con il suo esempio, creando simpatia, fiducia, entusiasmo nei collaboratori, che li porta naturalmente a mettere a frutto tutte le loro energie e la loro intelligenza.
Che insegna loro a guidare, mobilitare dare l’esempio, a loro volta, i propri dipendenti. Cioè per diventare, essi stessi dei veri capi.
Creare una comunità morale
Una impresa raggiunge i suoi successi più strepitosi quando il gruppo dirigente è formato da persone che condividono gli stessi fini ed in cui ciascuno dimentica i propri interessi personali per darsi totalmente allo scopo comune.
Allora la sua personalità si dilata, la comprensione reciproca diventa fulminea, l’accordo diventa facile, spontaneo e nasce una forza, una creatività straordinaria.
È questo ciò che ogni leader, ogni imprenditore, ogni capo dovrebbe voler realizzare.
E, quando lo ha realizzato, dovrebbe coltivare, tenere vivo, proteggere, potenziare questo spirito, ed impedire che si accendano i processi negativi in cui ogni individuo antepone la sua personale meta individuale, il suo personale interesse alla meta collettiva.
Troppo spesso dimentichiamo che una impresa non è solo una entità economica, cementata da interessi, ma una comunità morale.
Quando si spezza la comunità morale, e il gruppo resta unito solo dalla ricerca del potere del guadagno, delle chiacchiere o, ancor peggio dalla ipocrisia e dalla paura, il suo destino è segnato: lentamente declina, sprofonda nella mediocrità, alla fine fallisce.
Troppo spesso dimentichiamo che oltre all’intelligenza, alla lungimiranza, oltre alla stessa genialità il grande leader deve avere realmente delle qualità morali, delle virtù.
Perché solo se le possiede in proprio potrà trasmetterle agli altri.
Sembra impossibile che la gente abbia dimenticato che uno Stato, un partito, una impresa ha realmente bisogno di moralità.
E che la moralità non è fatta di parole, ma di sentimenti sinceri e di comportamenti coerenti.
E che si insegna solo con l’esempio.
La parola virtù è oggi così poco usata che ci siamo perfino dimenticato il suo significato.
Una virtù è un insieme di qualità, profondamente interiorizzate che soddisfano simultaneamente tre requisiti.
  • Il primo è di realizzare ciò che riteniamo un valore, per cui ci sentiamo migliori.
  • Il secondo di ottenere risultati utili per noi o per la nostra comunità, cioè una utilità.
  • Il terzo terza di costituire un modello, un comportamento che vorremmo seguissero anche gli altri.
Solo quando sono presenti tutti e tre questi requisiti una virtù è completa.
Quali virtù allora?
  • sincerità contrapposta alla falsità, alla doppiezza, l’intrigo, la calunnia, l’ ipocrisia.
  • obbiettività: la capacità di valutare senza farsi influenzare dai pregiudizi e dalle maldicenze.
  • forza d’animo, che lo rende sereno e lucido anche nei momenti più difficili.
  • umiltà, che è la capacità di ascoltare gli altri e di ammettere e correggere i propri errori.*
  • coraggio, necessario per prendere decisioni difficili ed assumersene le responsabilità.
  • generosità che è la capacità di pensare agli altri, al loro benessere, di dedicarsi, di spendersi, dando l’esempio.
giustizia, l’arte difficile di scegliere veramente i capaci, gli onesti, i sinceri, e scacciare i disonesti, i falsi, i calunniatori, chi perseguita e prevarica gli innocenti

CAPACITA’ GIURIDICA

Non va confusa con la capacità di agire, che è l’idoneità del soggetto a porre in essere atti giuridici validi, esercitando in questo modo i suoi diritti e adempiendo ai suoi doveri.
La capacità giuridica, in quanto modo d’essere del soggetto giuridico, rientra tra le qualità giuridiche.

CAPACITA’ DI AGIRE

BOICOTTAGGIO

Oltre che a tali fini moralizzatori l’azione di boicottaggio può essere posta in essere anche a scopi economici.
Vi sono almeno tre tipi di boicottaggio: di “coscienza”, “strategico” ed uno “etico-strategico”.
Il boicottaggio di coscienza risponde allo scopo di compiere azioni volte a correggere un’attività considerata contraria ai principi morali o dannosa. Un esempio in questo senso è il boicottaggio degli OGM o di prodotti e servizi di una società che adotta comportamenti ritenuti scorretti.
Il boicottaggio strategico ha invece finalità politiche o economiche e viene intrapreso da gruppi organizzati o anche da stati o organizzazioni internazionali al fine di modificare comportamenti in atto presso altri gruppi o stati usando ritorsioni economiche e commerciali sugli stessi.    Un esempio in tal senso è il boicottaggio statunitense dei prodotti cubani.
“il boicottaggio definito come “etico-strategico”, condivide in qualche maniera entrambe le posizioni.    Consiste in una forma di ribellione e rifiuto di quei prodotti “eticamente scorretti”, ma in maniera “strategica”, vale a dire un boicottaggio che porti dei danni economici alle aziende incriminate.   Con tale espressione si intende il modo che molte persone hanno per evitare di comperare (e quindi sostenere) prodotti derivanti dall’inaccettabile sfruttamento umano o del pianeta: prodotti direttamente fabbricati da persone (spesso bambini) in condizioni di lavoro estremamente disumane e, spesso, indotte dal sistema economico; marche che, pur di raggiungere il maggior profitto, non rispettano la dignità umana ed il valore del lavoro; prodotti altamente inquinanti, pericolosi per la saluta del pianeta o per la salute umana, creati nel nome del “libero mercato” e del “massimo profitto” che, pur essendo lesivi ed in più difficilmente degradabili, vengono comunque commerciati.
Questo modo di boicottare è la maniera che ogni singolo soggetto possiede per ribellarsi al contingente sistema economico ed è la maniera che ogni singolo soggetto possiede per non sovvenzionare marche o prodotti derivanti da tale logica di mercato.
In taluni casi si può verificare il caso in cui il boicottaggio di coscienza assume una espansione tale da poter organizzarsi in movimento in grado di espandersi e trovare sostenitori rapidamente.
Una delle vittorie più significative ottenute mediante il boicottaggio fu l’abolizione del regime dell’apartheid in Sudafrica.
In questo caso si potrebbe benissimo parlare di coscienza presa!
Il successo di un boicottaggio, come movimento non strutturato, dipende dalla sua capacità di diffondere il messaggio.
Grazie all’avvento di internet con i siti web, i blog ed i forum la capacità di comunicazione dei movimenti di boicottaggio è aumentata consentendo di raggiungere un numero maggiore di potenziali aderenti.

AUTODETERMINAZIONE…DIRITTO DI

Affrontiamo ogni giorno i contraccolpi che gravano sul nostro futuro.
Coloro che fanno qualcosa per garantirlo e migliorarlo
sono reietti, derisi, ripudiati, respinti … ma ogni giorno sono sempre di più.
Come un tempo, anche oggi
c’è chi è abituato ad abusare, a lucrare e gozzovigliare a discapito degli altri.
Ci è stato strappato il diritto di decidere
senza impedimenti e autonomamente come e quando vivere la nostra vita.
Ci è stato negato l’innato e fondamentale diritto di autodeterminazione
che custodisce i sacrosanti principi che
tutti noi rivendichiamo nelle lotte di ogni giorno.
Noi siamo
ciò che abbiamo deciso di essere
e liberamente
abbiamo deciso di essere ciò che siamo
da sempre un Popolo e una Nazione.
WSM
Con onore e rispetto
Venethia, mercoledì 16 agosto 2023

 

 

 


Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce l’obbligo, in capo alla comunità degli stati, a consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera (colonizzazione o occupazione straniera con la forza), o facente parte di uno stato che pratica l’apartheid, possa determinare il proprio destino in uno dei seguenti modi: ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi a un altro stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico (c.d.: «autodeterminazione esterna»).
Il principio, nell’ambito del diritto internazionale, esplica i suoi effetti solo sui rapporti tra gli stati e non sancisce alcun diritto all’autodeterminazione in capo a un popolo: quest’ultimo, infatti, non è titolare di un diritto ad autodeterminare il proprio destino ma è solo il materiale beneficiario di tale principio di diritto internazionale, i cui effetti, invece, si ripercuotono solo sui rapporti tra stati: questi, se ne ricorrono le anzidette condizioni, sono tenuti ad acconsentire all’autodeterminazione.

Il principio non è applicabile ai paesi sottoposti a occupazione straniera prima della fine della seconda guerra mondiale (irretroattività), a meno che non si tratti di paesi coloniali.
Tale principio costituisce una norma di diritto internazionale generale, cioè una norma che produce effetti giuridici (diritti e obblighi) per tutta la Comunità degli Stati.
Inoltre, questo principio è anche una norma di ius cogens, cioè diritto inderogabile, un principio supremo e irrinunciabile del diritto internazionale, per cui non può essere derogato mediante convenzione internazionale.
Come tutto il diritto internazionale, il principio di autodeterminazione viene ratificato da leggi interne: per esempio, in Italia, vi è la L. n. 881/1977; nell’ordinamento italiano il principio vale come legge dello Stato che prevale sul diritto interno (Cass. pen. 21-3 1975).
L’autodeterminazione dei popoli costituisce un principio fondamentale del diritto internazionale contemporaneo, in virtù del quale tutti i popoli hanno diritto a decidere autonomamente del proprio assetto politico, economico e sociale. La Corte internazionale di giustizia lo ha caratterizzato come un principio da cui derivano obblighi c.d. erga omnes, al cui rispetto hanno un interesse giuridicamente riconosciuto tutti gli Stati, in nome e per conto della comunità internazionale (C.I.J., 30.6.1995, Case Concerning East Timor, Portogallo c. AustraliaC.I.J., 9.7.2004, Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, parere consultivo). Secondo parte della dottrina, il principio è diventato parte dello ius cogens, cioè di quel nucleo di norme inderogabili a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale (cfr. Brownlie, I., Principles of Public International Law, VII ed., Oxford, 2008, 511; Cassese, A., Self-Determination of Peoples. A Legal Reappraisal, Cambridge, 1995, 140)Ciò nonostante, esso continua a essere contraddistinto da margini di incertezza giuridica, sia riguardo all’ambito soggettivo di applicazione, in particolare rispetto all’individuazione dei gruppi destinatari del corrispettivo diritto; sia riguardo alla possibilità che tale diritto possa essere esercitato al di fuori del contesto coloniale per condurre alla creazione di un nuovo Stato.
L’autodeterminazione dei pop—oli trova pieno riconoscimento giuridico nel 1945 con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite. La Carta richiama il principio nel preambolo, all’art. 1, concernente le finalità dell’organizzazione, e all’art. 55, relativo all’azione delle Nazioni Unite in ambito economico e sociale e di promozione del rispetto dei diritti dell’uomo. Va notato tuttavia come, aldilà di questi riconoscimenti di natura generale e programmatica, l’autodeterminazione non appaia nei capitoli XI e XII relativi all’amministrazione dei territori coloniali, nelle rispettive forme dei territori non autonomi e delle amministrazioni fiduciarie. L’assenza nella Carta di meccanismi istituzionali e di specifiche procedure per dare attuazione al principio di autodeterminazione deriva dalle posizioni assunte da Francia e Gran Bretagna durante i lavori preparatori; queste miravano a garantire ampia discrezionalità alle potenze coloniali nello stabilire quando i popoli e i territori “d’oltremare” sotto il loro controllo avrebbero raggiunto quel grado di civilizzazione e di organizzazione politica necessario perché potessero costituirsi in nuovi Stati (Oeter, S., Self-Determination, in Simma, B., a cura di, The Charter of the United Nations. A Commentary, III ed., Oxford, 2012, 313 ss.).

È solamente con l’impetuosa affermazione dei movimenti indipendentisti nei contesti coloniali dell’Africa e dell’Asia, che il principio di autodeterminazione assume i contorni di un vero e proprio “diritto all’autodeterminazione” di cui i popoli sono destinatari, in quanto titolari o, perlomeno, beneficiari (per la tesi, prevalente nella dottrina italiana, secondo cui i popoli sarebbero meri beneficiari dell’obbligo degli Stati di rispettare il principio di autodeterminazione si veda, per tutti, Arangio Ruiz, G., Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1 ss.). Con le due risoluzioni 1514 (XV) e 1541 (XV), adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1960, si cristallizza una opinio iuris generalizzata, accompagnata da una successiva prassi applicativa guidata dalla stessa Assemblea generale, che riconosce in maniera incondizionata il diritto all’autodeterminazione in capo a tutti i popoli sottoposti a dominio coloniale; secondo la formula stabilita dalla stessa risoluzione 1541, i popoli possono liberamente scegliere tra l’indipendenza, un accordo di libera associazione con la madrepatria ovvero l’integrazione nello Stato amministrante. Con la risoluzione 2625 (XXV) sui principi di diritto internazionale che regolano le relazioni amichevoli tra Stati, approvata dall’Assemblea generale nel 1970, viene data compiuta espressione all’opinio iuris che il principio di autodeterminazione dei popoli si estenda anche a quelle situazioni in cui una popolazione sia sottoposta ad un qualsiasi dominio straniero, non necessariamente di natura coloniale (Tancredi, A., Autodeterminazione dei popoli, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 568 ss.). L’adesione degli Stati a tale principio è stata poi riaffermata nel 1975 al Cap. VIII dell’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (in Int. L. Mat., 1975, 1292 ss.) e nel 1993 al par. 2 della Dichiarazione conclusiva della Conferenza mondiale sui diritti umani tenutasi a Vienna (UN doc. A/CONF.157/23).

Per quanto concerne il diritto pattizio, risalgono al 1966 i due Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti sociali, economici e culturali, il cui comune art. 1 riconosce il diritto all’autodeterminazione politica, economica, sociale e culturale di tutti i popoli. Il secondo paragrafo dell’art. 1 prevede anche il diritto dei popoli a disporre liberamente delle proprie risorse naturali, nel rispetto degli obblighi di diritto internazionale e delle esigenze della cooperazione economica internazionale. In questo secondo paragrafo, trova espressione pattizia il corollario della sovranità permanente dei popoli alle proprie risorse naturali, sviluppatosi soprattutto grazie all’azione dell’Assemblea generale (si veda soprattutto la risoluzione 1803 del 1962). Il terzo paragrafo dell’art. 1, oltre all’obbligo degli Stati di rispettare il diritto all’autodeterminazione, prevede anche l’obbligo positivo di promuoverlo. La natura erga omnes partes del principio in esame è stata messa in luce dal Comitato dei diritti umani nel 1984 nel General Comment No. 12, in cui ha stabilito che gli obblighi di cui all’art. 1 si applicano agli Stati, anche quando il popolo destinatario non sia da essi dipendente e che, in questi casi, gli Stati sono tenuti ad adottare tutte le misure positive per facilitare la realizzazione e il rispetto del diritto all’autodeterminazione e dei suoi corollari (UN doc. HRI/GEN/1/Rev.1). Infine, per quanto concerne il diritto internazionale regionale, il diritto all’autodeterminazione e alla sovranità permanente sulle risorse naturali è riconosciuto dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli agli artt. 20 e 21.

Ci si chiede oggi se il principio di autodeterminazione dei popoli, fatta eccezione per le poche vicende di teatri di crisi ereditati dall’era coloniale, come la Palestina (si veda, in ultimo, il richiamo al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese al par. 1 della risoluzione 67/19, adottata dall’Assemblea generale il 29.11.2012, con cui la Palestina ha acquisito lo status di Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite) e il Sahara occidentale, abbia esaurito la sua ragione di essere, proprio in virtù dell’ormai conclusa esperienza della decolonizzazione. In particolare, la prassi degli Stati e della comunità internazionale nella fase Post Guerra Fredda sembra avere ridimensionato la portata e gli effetti del principio, da cui deriverebbe un diritto in capo ai popoli di emanciparsi da un’autorità di governo straniera, nemica o anche solamente considerata illegittima, per riaffermare in maniera netta l’esigenza del rispetto del principio di integrità territoriale degli Stati. La comunità internazionale, a partire dagli anni Novanta, ha mostrato unità di intenti nei contesti più diversi, dai Paesi Baschi alla Cecenia, passando per il Somaliland, nel riaffermare il principio di integrità territoriale degli Stati (si veda Crawford, J., State Practice and International Law in Relation to Secession, in Br. Yearb. Int. L., 1998, 85 ss.). Il principio di autodeterminazione è stato sempre più declinato nella sua accezione interna, cioè, come un diritto a ottenere dal governo dello Stato un trattamento rispettoso dell’identità culturale, linguistica e politica della popolazione.

L’individuazione di un punto di equilibrio cui sarebbe giunto il diritto internazionale, in una prospettiva di bilanciamento tra autodeterminazione dei popoli e diritto all’integrità territoriale degli Stati, è evidente nel parere sulla Secessione del Quebec emanato dalla Corte suprema canadese nel 1998 (C. supr. Can., 20.8.1998, Reference Re Secession of Quebec)Il Governo federale canadese aveva chiesto alla Corte suprema se, ai sensi del diritto internazionale, le istituzioni provinciali del Quebec godessero di un diritto a dichiarare e perfezionare la separazione della provincia francofona dalla federazione canadese. La Corte suprema stabilisce che il diritto all’autodeterminazione, nel diritto internazionale contemporaneo, avrebbe una prevalente declinazione “interna” e il diritto a separarsi dallo Stato sarebbe riconosciuto da una norma positiva di diritto internazionale, ove il popolo sia sottoposto a un dominio coloniale o straniero. La Corte suprema presenta anche una terza ipotesi, non realizzata nel caso di specie, di un diritto all’autodeterminazione “esterna” nei casi di violazioni sistematiche commesse dal governo dello Stato nei confronti dei diritti di una parte della popolazione; ma esprime dubbi sul fatto che il c.d. diritto alla secessione come “ultimo rimedio” sia già diventato parte del diritto internazionale positivo.

Come già notato, nel parere sul Kosovo, la Corte internazionale di giustizia non si è pronunciata sul diritto all’autodeterminazione della popolazione kosovara, come rimedio alle politiche di repressione portate avanti dal Governo di Belgrado durante gli anni Novanta. Tuttavia, dal procedimento consultivo, emerge che tra i più di 40 Stati che hanno partecipato al procedimento davanti alla Corte, 13 di questi hanno affermato il diritto alla secessione rimedio come fondamento giuridico delle pretese kosovare (si veda Pertile, M., Il parere sul Kosovo e l’autodeterminazione assente: quando la parsimonia non è una virtù, in Gradoni, L.-Milano, E., a cura di, Il parere della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo: un’analisi critica, Padova, 2011, 89 ss.). Lo stesso Piano Ahtisaari, che nel 2007 aveva promosso la soluzione di un Kosovo indipendente sotto supervisione internazionale, prendeva atto del clima di ostilità e di sfiducia nei confronti del Governo di Belgrado in conseguenza delle repressioni dell’era Milosevic e, quindi, faceva propria la necessità di una separazione dalla Repubblica di Serbia (Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement, UN doc. S/2007/168/Add.1). Sebbene sia anche significativo (11) il numero degli Stati che, invece, hanno fermamente negato l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione “post-coloniale” e sostenuto la prevalenza del diritto all’integrità territoriale, l’ingente mole di prassi e di espressione di opinio iuris motivata dall’indipendenza del Kosovo mostra come il punto di equilibrio individuato dalla Corte suprema canadese nel parere sul Quebec non sia affatto stabile. Peraltro, la stessa Corte internazionale di giustizia, in un passo del proprio parere, ha limitato l’ambito di applicazione soggettiva del principio di integrità territoriale, affermando che esso sarebbe “confinato” alle relazioni tra Stati e revocando, quindi, in dubbio che il diritto stesso al mantenimento dei confini internazionalmente riconosciuti possa essere opposto a gruppi non statali che ambiscano alla separazione (C.I.J.Unilateral Declaration of Independence of Kosovo, cit.).

Nonostante la prassi sia ancora limitata e nonostante la dottrina che sostiene l’autodeterminazione “esterna” come ultima ratio svolga, anche per la summenzionata limitatezza, le proprie argomentazioni utilizzando un approccio deduttivo, ancorato principalmente a una lettura a contrario delle simili clausole di salvaguardia dell’integrità territoriale degli Stati contenute nella Dichiarazione Finale della Conferenza di Helsinki del 1975 e nella Dichiarazione Finale della Conferenze di Vienna del 1993 (approccio deduttivo che “cozza” con la nozione di diritto consuetudinario che emerge dall’Art. 38, par. 1, lett. b) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia), gli elementi sopra esposti, unitamente al caso della recente indipendenza del Sud Sudan, sembrano indicare uno stato del diritto internazionale sulla materia di nuovo “fluido”, in cui il diritto all’autodeterminazione potrebbe assumere nuove forme e esprimere le proprie potenzialità sul piano internazionale, in contesti differenti da quelli in cui era originariamente emerso. Il legame tra sovranità, territorialità e legittimità del governo, proiettato nell’emersione del principio di autodeterminazione dei popoli e già evidenziato, quasi un secolo fa, dalla Commissione internazionale di giuristi nel rapporto relativo alle Isole Aaland, non sembra potere essere reciso nel diritto internazionale, del XXI secolo, sempre più rispondente alle istanze degli individui e dei gruppi non statali.

ART. 96.3 DEL PRIMO PROTOCOLLO DI GINEVRA DEL 1977

1.  Quando le Parti delle Convenzioni sono anche Parti del presente Protocollo, le Convenzioni si applicheranno quali risultano completate dal presente Protocollo.
2.  Se una delle Parti in conflitto non è legata dal presente Protocollo, le Parti del presente Protocollo resteranno nondimeno vincolate da quest’ultimo nei loro reciproci rapporti. Esse saranno inoltre vincolate dal presente Protocollo verso la detta Parte, se questa ne accetta e ne applica le disposizioni.
3.  L’autorità che rappresenta un popolo impegnato contro un’Alta Parte contraente in un conflitto armato del carattere indicato all’articolo 1 paragrafo 4 (vedi sotto), potrà impegnarsi ad applicare le Convenzioni e il presente Protocollo relativamente a detto conflitto, indirizzando una dichiarazione unilaterale al depositario. Dopo la sua ricezione da parte del depositario, tale dichiarazione avrà, in relazione con il conflitto stesso, i seguenti effetti:
a) le Convenzioni e il presente Protocollo entreranno in vigore per la detta autorità nella sua qualità di Parte in conflitto;
b) la detta autorità eserciterà gli stessi diritti e assolverà gli stessi obblighi delle Alte Parti contraenti delle Convenzioni e del presente Protocollo; e
c) le Convenzioni e il presente Protocollo saranno egualmente vincolanti per tutte le Parti in conflitto.
Art. 1 Principi generali e campo di applicazione
1.  Le Alte Parti contraenti si impegnano a rispettare e a far rispettare il presente Protocollo in ogni circostanza.
2.  Nei casi non previsti nel presente Protocollo o in altri accordi internazionali, le persone civili e i combattenti restano sotto la protezione e l’imperio dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti, dai principi di umanità e dai precetti della pubblica coscienza.
3.  Il presente Protocollo, che completa le Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 per la protezione delle vittime della guerra, si applicherà nelle situazioni previste nell’articolo 2 comune a dette Convenzioni.
4.  Le situazioni indicate nel paragrafo precedente comprendono i conflitti armati nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell’esercizio del diritto dei popoli di disporre di sé stessi, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati in conformità della Carta delle Nazioni.

ANNESSIONE

L’annessione è l’atto tramite cui uno Stato amplia il proprio territorio, nella maggior parte dei casi a scapito di un altro stato.
L’annessione può avvenire a danno di una porzione del territorio di un altro Stato, che continua ad esistere (annessione propriamente detta).
Oppure può riguardare l’intero territorio di un altro Stato, che cessa pertanto di esistere, specialmente se a seguito di sconfitta militare (debellatio e incorporazione). In tale secondo caso, l’annessione era giustificata dalla necessità di mantenere la sicurezza all’interno del territorio.
L’annessione non è il contrario né della “cessione” né della “secessione” e non è sinonimo di “fusione”.
L’annessione, difatti, è un atto unilaterale in cui il territorio viene tenuto da uno Stato e legittimato attraverso il riconoscimento generale da parte degli organismi internazionali.
Nel diritto internazionale contemporaneo, l’annessione illegale di un territorio da parte di una potenza occupante si deve considerare privo di effetti giuridici.
Fino al termine della prima guerra mondiale e alla messa al bando dell’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, l’annessione poteva essere la conseguenza legale della sconfitta militare e debellatio dell’avversario.
In passato, l’annessione poteva anche fare seguito all’occupazione militare di territori che non sono sotto sovranità di alcuno Stato (res nullius).
In tal caso, l’annessione deve essere effettiva e con l’intenzione di sottoporre il territorio alla propria sovranità, oltre che notificata agli stati terzi, come definito dalla Convenzione di Berlino del 1885.
Quando l’annessione avviene tramite accordo internazionale, specie se in cambio di contropartita in denaro (es., la cessione delle isole Caroline da parte della Spagna alla Germania nel 1899 per 25 milioni di pesetas, o la vendita della Louisiana dalla Francia agli Stati Uniti) o come compensazione per danni di guerra (es., i territori tedeschi passati al Belgio o a Polonia e Unione Sovietica), si parla di cessione.
Durante la seconda guerra mondiale, l’impiego delle annessioni ha privato intere popolazioni dei diritti previsti dal diritto internazionale in materia di occupazione militare.
I fautori della quarta Convenzione di Ginevra hanno reso molto più difficile per uno Stato l’aggiramento del diritto internazionale attraverso l’uso di un’annessione.