GLOSSARIO

ATYAGRAHA OVVERO “FERMEZZA IN UNA BUONA CAUSA”.

Gandhi, nel corso del 1907, avviò una riflessione volta a discutere criticamente l’uso di questi termini.
Solo alcuni anni dopo (attorno al 1913) Gandhi iniziò a rifarsi al termine “ahimsa” = nonviolenza / innocenza (letteralmente: “assenza della volontà di nuocere”).
Peraltro Gandhi stesso diverrà consapevole assai presto che l’ahimsa è da intendersi in senso positivo, e non semplicemente negativo, come pura “assenza di violenza”.Ahimsa significa l’appello ad una “forza altra”, distinta dalla violenza e ad essa opposta, e la definirà “forza che dà vita”.
Così Gandhi il 18 dicembre 1907 indisse, dalle colonne del settimanale degli indiani del Sudafrica “Indian Opinion”, un concorso per trovare un nome più appropriato e che sapesse cogliere a pieno lo spirito del metodo.
La proposta vincente fu suggerita da shri Maganlal Gandhi: sadagraha, cioè “fermezza in una buona causa”.
A Gandhi la parola piacque, ma – dice lui stesso nella sua autobiografia – “affinché fosse più comprensibile io poi la cambiai in satyagraha, che da allora in poi è diventata comune in lingua gujarati per definire la nostra lotta”.
Il 10 gennaio 1908 Indian Opinion pubblica per la prima volta la parola Satyagraha, che da allora divenne il nome ufficiale del movimento e del metodo di lotta promosso da M. K. Gandhi: la forza che nasce dalla verità e dall’amore.
Il satyagrahi (colui che pratica il satyagraha) aderisce a undici principi che osserva in spirito di umiltà: non violenza, verità, non rubare, castità, rinuncia ai beni materiali, lavoro manuale, moderazione nel mangiare e nel bere, impavidità, rispetto per tutte le religioni, swadeshi (uso dei prodotti fatti a mano), sradicamento dell’intoccabilità.
Il satyagraha può anche essere definito una forma di lotta politica e sociale (per Gandhi vi è una forte identità tra i due termini), dotata della massima efficacia se utilizzata per fini nobili e degni; risulta, invece, inutile o dannosa per chi lo pratica per egoismo o brama.
Nel pensiero satyagraha vi è identità tra fine e mezzo, a dispetto di ogni concezione “machiavelliana”: per raggiungere una meta giusta l’unico modo è quello di usare metodi pacifici e nonviolenti, con amore verso il “nemico” contro cui è diretto.
Esso distingue il peccato dal peccatore e, mentre verso il primo si scaglia con tutta la sua forza, verso il secondo si comporta fraternamente: il suo obiettivo non è la distruzione dell’avversario, ma la sua convinzione (con-vincere, vincere con), e la pacifica convivenza di entrambi.
Chi pratica il Satyagraha intende dare forza all’avversario che usando motodi violenti è in realtà debole e per questo necessita della forza spirituale che si sprigiona durante un’azione nonviolenta.
Nel satyagraha vi è una forte tensione morale: i valori sono una componente fondamentale del pensiero e dell’azione, in ogni campo (sociale, politico, religioso, economico, culturale, ecc.).
Il satyagraha è anche il servizio dell’altro: nella disputa è còmpito del satyagrahi mostrare la via giusta, aderirvi e accettare a cuor sereno tutte le conseguenze.
La disobbedienza civile potrebbe rendere necessario infrangere una legge ingiusta: in tal caso il cittadino, rispettoso di tutte le altre leggi, moderato dall’auto-disciplina, obbedirà alla superiore legge morale e trasgredirà quella dello stato accettando senza rimorso la pena corrispondente.
Il fondamento di ciò è la superiorità della purezza dello spirito (derivante dall’obbedienza alla legge morale) rispetto alla sofferenza del corpo che potrebbe essere causata dal danno economico ricevuto o dalla permanenza in prigione.
Nel concreto il satyagraha si traduce in molteplici forme, alcune delle quali storicamente sperimentate, altre sono ancora da ideare.
Esse sono: la non collaborazione nonviolenta, il boicottaggio, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza alle spese militari, l’azione diretta nonviolenta, il digiuno, ecc., nonché, in termini più generali, il pacifismo.
In India si ricorda la storica marcia del sale del 1930.
Il governo inglese aveva imposto una tassa sul sale che, essendo questo una materia prima di fondamentale importanza, andava a colpire pesantemente tutta la popolazione indiana con particolare danno dei più poveri.
Gandhi e i suoi collaboratori (o meglio amici, compagni, familiari) partirono dalla loro fattoria che erano in 78: i loro nomi vennero pubblicati sui giornali perché la polizia ne fosse informata.
Percorsero a piedi le duecento miglia che separano Ahmedabad da Dandi, nello stato del Gujarat, marciando per 24 giorni, e quando arrivarono alle saline erano diverse migliaia.
Alla fine il Mahatma raccolse un pugno di sale.
Disarmati, ordinatamente e col sorriso sulle labbra, i manifestanti andavano incontro alla polizia, sul luogo per sedare la rivolta.
Nonostante i duri colpi di sfollagente, i numerosi feriti e la violenza delle autorità, i cittadini continuavano ad avanzare silenziosi, a subire il trattamento senza reagire in alcun modo, senza neanche difendersi.
Dopo un po’ la polizia si arrese di fronte ad una fiumana di gente che continuava ad avanzare senza paura.
Fu lo stesso comandante ad ammettere, a posteriori, il senso di impotenza di fronte a quella moltitudine, che coglieva impreparati gli agenti generalmente avvezzi a ben altro tipo di proteste popolari.
Martin Luther King praticò il satyagraha ispirandosi direttamente alle gesta nonviolente di Gesù e di Gandhi.
Negli Stati Uniti d’America del Sud organizzò un boicottaggio agli autobus, poiché vigevano delle norme che imponevano discriminazioni razziali nei posti a sedere.
Altri esempi di Martin Luther King sono la marcia su Washington per la conquista dei diritti civili e i numerosi sit-in.

RIVOLUZIONE

Avremo reso un servigio all’umanità.
Nella filosofia politica è l’ideale della realizzazione storica di un radicale cambiamento, ispirato da motivazioni ideologiche, nella forma di governo di un paese con trasformazioni profonde di tutta la struttura sociale, economica e politica.
La rivoluzione come fenomeno storico è un processo rapido o di lunga durata, non sempre violento, con il quale classi o gruppi sociali, più o meno ampi, si ribellano alle istituzioni al potere per modificarle e determinare un nuovo ordinamento politico.
(vedi anche SECESSIONE – INSURREZIONE)

RICONOSCIMENTO DI STATO E DI GOVERNO

Stati totalmente privi di riconoscimento o riconosciuti solo da un numero ridotto di altri Stati sono definiti come “Stati non riconosciuti” o “a riconoscimento limitato”.
Riconoscimento di Stati
Si ha un riconoscimento di Stato quando uno Stato, con un proprio atto, riconosce appunto la condizione di “Stato” a un’altra entità, ammettendola quindi nel novero dei soggetti di diritto internazionale; benché il riconoscimento sia necessario per fare ciò, dall’atto non discende comunque un automatico obbligo di avviare relazioni diplomatiche tra i due soggetti. L’atto di riconoscimento testimonia tanto la volontà politica dello Stato preesistente di intrattenere normali relazioni con lo Stato riconosciuto, che l’attestazione giuridica da parte di esso dell’esistenza delle condizioni previste perché un soggetto possa essere considerato come “Stato sovrano”.
Sulla base della cosiddetta “teoria dichiarativa”, uno Stato esiste se controlla stabilmente un territorio abitato e se è dotato di autonome istituzioni di governo che esercitino effettivamente la sovranità su tale territorio; secondo tale teoria, quindi, l’esistenza di uno Stato non dipende dal riconoscimento o meno di esso da parte degli altri Stati: uno Stato è tale anche se non è riconosciuto da nessun altro Stato al mondo, e l’atto di riconoscimento non è costitutivo della personalità giuridica internazionale ma solo “dichiarativo” di una situazione già esistente nei fatti.
Secondo la più vecchia “teoria costitutiva”, invece, il riconoscimento da parte degli altri Stati è condizione necessaria perché un soggetto possa diventare uno “Stato sovrano” a tutti gli effetti: in base a tale tesi, sono gli Stati preesistenti a decidere se e quando un nuovo ente può essere ammesso nel novero dei soggetti di diritto internazionale.
Il riconoscimento è un atto politico, non soggetto a particolari obblighi giuridici nella sua formulazione, pertanto è realizzabile sia tramite un atto esplicito che attraverso comportamenti che attestino in qualche modo una forma di “riconoscimento tacito”: ad esempio, si ritiene generalmente che il voto favorevole di uno Stato all’ammissione di un soggetto all’interno di un’organizzazione internazionale riservata agli Stati (in particolare, le Nazioni Unite) costituisca una forma di “riconoscimento di Stato tacito” di tale soggetto; per tale ragione, quando uno Stato intrattiene una qualche forma di contatti o colloqui con un soggetto verso cui non intende operare un riconoscimento, può sentire il bisogno di proclamare esplicitamente che i suoi atti non costituiscono riconoscimento di Stato di tale soggetto.
Si ritiene che l’atto di riconoscimento di uno Stato produca un effetto di estoppel nei confronti di chi opera il riconoscimento: l’atto preclude allo Stato che ha effettuato il riconoscimento la possibilità di contestare successivamente la situazione di fatto o di diritto riconosciuta, o di negare in un secondo tempo la soggettività giuridica internazionale allo Stato riconosciuto.
In passato, si riteneva che unico requisito richiesto al nuovo soggetto perché potesse essere riconosciuto come Stato fosse l’effettivo controllo di una comunità territoriale. Dagli anni 1930 (con la cosiddetta “Dottrina Stimson”), e poi ancora con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite, si è dato maggior rilievo al fatto che il nuovo soggetto rispetti effettivamente le regole fondamentali della comunità internazionale (come il divieto di ricorrere alla guerra in violazione di trattati internazionali), i diritti umani universali e i diritti generalmente accordati alle minoranze: in caso di violazione di tali principi, è ritenuto legittimo che uno Stato rifiuti il riconoscimento a un soggetto che pure esercita la piena autorità sovrana su un dato territorio, circostanza che ad esempio si verificò con la Rhodesia tra il 1965 e il 1980 (il riconoscimento dello Stato rhodesiano, che pure era effettivamente in possesso dei requisiti sostanziali di controllo del territorio, fu vietato da due risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a causa delle ripetute violazioni dei diritti delle popolazioni nere).
Poiché però il riconoscimento è un atto unilaterale e non soggetto a particolari obblighi giuridici, è perfettamente possibile che uno Stato riconosca un soggetto anche se esso viola i principi di cui sopra; in particolare, si parla di “riconoscimento prematuro” quando il riconoscimento avviene prima che il nuovo Stato sia entrato in possesso delle condizioni di fatto per l’acquisto della personalità giuridica internazionale (in particolare, l’effettivo controllo di un territorio abitato): ad esempio, “riconoscimento prematuro” è stato considerato da alcuni autori quello accordato da Comunità europea, Austria e Svizzera nei confronti della Croazia il 15 gennaio 1992, in quanto il nuovo Stato croato, impegnato nelle guerre jugoslave, non controllava all’epoca che un terzo del suo territorio.

Riconoscimento di governi
Si ha un riconoscimento di governo quando uno Stato riconosce appunto la condizione di “governo di uno Stato” a un certo soggetto esterno, avviando con esso normali rapporti diplomatici; il riconoscimento di governo è un atto distinto dal riconoscimento di Stato, benché sia necessario che il secondo sia stato effettivamente eseguito per poter operare il primo.
A differenza del riconoscimento di Stato, il riconoscimento di governo può essere successivamente ritirato o annullato dallo Stato che lo ha effettuato, mossa che costituisce una misura di riprovazione internazionale superiore in intensità alla rottura delle relazioni diplomatiche; il venir meno del riconoscimento di governo non ha però effetti sul precedente riconoscimento dello Stato interessato.
Generalmente, la questione del riconoscimento di governo non si pone quando la successione tra due governi si verifica nel rispetto delle normative costituzionali dello Stato interessato, cioè quando avviene per tramite di elezioni o referendum; invece, si ritiene necessario esperire un riconoscimento di governo quando la successione avviene per vie extracostituzionali o violente, cioè a seguito di un colpo di stato o di una rivoluzione.

LA RESISTENZA NON VIOLENTA

È diffusamente assimilata alla resistenza civile, sebbene i due concetti abbiano meriti distinti e connotazioni leggermente differenti.
La forma moderna di resistenza nonviolenta è stata resa popolare, nonché collaudata per la sua efficacia, dal leader indiano Gandhi nei suoi sforzi per ottenere l’indipendenza dagli inglesi.
Tra i sostenitori della resistenza nonviolenta, occorre menzionare Lev Tolstoj, Mohandas Gandhi, Andrej Sacharov, Martin Luther King, Václav Havel, Gene Sharp e Lech Wałęsa.
Nel 2006 la biologa evoluzionista Judith Hand ha presentato un metodo per abolire la guerra fondato sulla resistenza nonviolenta.
Molti movimenti che promuovono la filosofia nonviolenta o quella pacifista hanno adottato dei metodi d’azione nonviolenta per perseguire efficacemente obiettivi sociali o politici.
L’azione nonviolenta si discosta dal pacifismo poiché essa è potenzialmente proattiva e interventista, e nasce da un rifiuto radicale della violenza.

RESISTENZA FISCALE

(Henry David Thoreau, Disobbedienza civile)
« Rifiutarsi di pagare le tasse è uno dei metodi più rapidi per sconfiggere un governo[senza fonte]. »
(Mahatma Gandhi)
La resistenza fiscale, protesta fiscale o sciopero fiscale è un gesto di ribellione consistente nel rifiuto di pagare le tasse allo Stato.
Tale gesto è spesso dovuto ad una forte opposizione a determinate politiche del governo, sia da un punto di vista civile che economico, oppure un’opposizione allo Stato in quanto istituzione in sé (gesto spesso attuato da movimenti anarchici).
Molti resistenti fiscali storici sono stati dei pacifisti, oppure particolari movimenti religiosi, come i quaccheri.
Questa “tecnica” è stata spesso usata anche da movimenti e personaggi nonviolenti, come ad esempio Mahatma Gandhi e Martin Luther King.

REPRESSIONE

La repressione politica può essere caratterizzata da discriminazioni, abusi da parte degli organi di polizia, ad esempio arresti ingiustificati o interrogatori brutali, e da azioni violente, come l’omicidio o la “sparizione forzata” di attivisti politici e dissidenti.
Quando la repressione politica è regolata e organizzata dallo stato stesso, si può parlare di terrorismo di stato.
Repressioni sistematiche e violente sono una caratteristica tipica di ogni dittatura, totalitarismo e regimi affini.
In questi regimi, gli atti di repressione spesso sono condotti da organi di polizia segreti, gruppi paramilitari o simili.

REFERENDUM

In virtù di esso si può richiedere ad un corpo elettorale il consenso o dissenso rispetto a una decisione riguardante singole questioni; si tratta dunque di uno strumento di democrazia diretta, che consente agli elettori di pronunciarsi senza intermediario alcuno su un tema specifico oggetto di discussione.
I requisiti, la disciplina e le caratteristiche sono variamente disciplinati nei vari ordinamenti giuridici.

Il tranello italiano del referendum.
Il referendum per l’indipedenza è una menzogna perché per fare un referendum bisgona dichiarararsi italiani e noi VENETI non siamo MAI diventati italiani.
Dire ai Veneti di fare un referendum per ottenere ciò che è gia previsto per legge (autodeterminazione) è un controsenso non solo giuridico ma un tradimento nei confronti della Patria che, essendo occupata dallo stato straniero italiano, viene vilipesa da questi sciacalli che pretendono che i Veneti si dichiarino italiani.
Ma se voi aveste uno straniero che con la violenza e abusivamente si è insediato in casa vostra, pretende che lo manteniate e vi impedisce di riconoscervi per quello che siete, vi depreda delle vostre risorse e fa di tutto per cancellare la vostra identità … cosa fate chiedete a questo delinquente se potete fare un referendum fra i vostri familiari per decidere se chiedergli di andarsene ??? …  o applicate la legge (autodeterminazione), denunciate il delinquente e chiedete aiuto ai vicini e agli amci per buttarlo fuori di casa ???
Un referendum per l’indipendenza è un tipo di referendum in cui i cittadini di un territorio, decidono se il territorio deve diventare uno Stato indipendente.
Il referendum sull’indipendenza è considerato positivo se i cittadini approvano l’indipendenza o esito negativo, se non lo fanno.
Il successo di un referendum per l’indipendenza può o non può comportare l’indipendenza, a seconda della decisione degli altri Stati sovrani.
Lo stato straniero occupante italiano non prevede questo tipo di “istituto” per cui anche fosse positivo l’esito di un referendum, non verrebe meno la dominazione italiana che non prevede neppure costituzionalmente una simile possibilità.
Ma c’è di più.
Il percorso referendario proposto da taluni partiti politici indipendentisti contrasta con la condizione giuridica attuale in cui versa la nostra Patria.
Come abbiamo già detto, il Popolo Veneto ha perso la propria sovranità a causa di una ripetuta occupazione straniera a seguito di un’invasione e quindi a causa di una forza maggiore.
Sul piano del diritto internazionale, l’avvenuta invasione e la conseguente dominazione di uno stato straniero non trova giustificazione alcuna per legittimare anche la presenza odierna dello stato occupante italiano.
E inoltre… in virtù di quale principio giurisprudenziale e del diritto il Popolo Veneto dovrebbe chiedere allo stato straniero italiano di concedergli una sovranità che è già sua?

REDDITO DI RESIDENZA

La rendita mensile è erogata in pari misura a tutti i Cittadini residenti (ovvero non espatriati in via permanente) e si estingue e si rinnova alla scadenza di ogni mese.
Ad ogni membro della Comunità, fin dalla sua nascita e fino alla sua emancipazione, (acquisizione di cittadinanza e al compimento del 18° anno d’età), è riconosciuta la contribuzione pari alla metà di quella prevista mensilmente per i Cittadini residenti.
Il reddito di cittadinanza è un diritto ed è quindi cumulabile con gli altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita …) ma è usufruibile, secondo le modalità e priorità che si andranno a stabilire, solo nel corso del mese per il quale è erogato.
La revoca, la sospensione o la parziale erogazione del reddito di cittadinanza sarà regolamentata esclusivamente in base alle priorità determinate dal prevalente interesse nazionale.
Vedi anche CREDITI SOCIALI.

RAPPORTO GIURIDICO

I rapporti giuridici definiscono e regolano di fatto la posizione giuridica di ogni soggetto dotato di personalità giuridica che interagisce con le cose o gli altri soggetti di diritto.
Tutte le relazioni giuridiche sono disciplinate dalla legge e dal buon senso.
L’OGVP nel riconoscere l’attribuzione di personalità giuridica a tutti i soggetti titolari del diritto all’esercizio della capacità giuridica, ovvero l’effettuale idoneità ad essere titolare di diritti ne recepisce anche la contestuale, incondizionata idoneità e conformità ad essere titolare di doveri.
Tale peculiarità non può essere avulsa dalla capacità di beneficiare dei diritti e dalla responsabilità derivante dai doveri.

PRINCIPIO DI LEGALITA’

Tale principio ammette che il potere venga esercitato in modo discrezionale, ma non in modo arbitrario.
Sotto il profilo formale, il principio di legalità conferisce alla pubblica amministrazione la giurisdizione e i soli poteri conferiti dalla legge.
Sotto il profilo sostanziale, il principio di legalità conferisce alla pubblica amministrazione sia la giurisdizione che la facoltà di esercizio dei loro poteri in conformità con i contenuti prescritti dalla legge.
L’amministrazione è tenuta non solo a perseguire i fini determinati dalla legge (legalità-indirizzo), ma anche a operare in conformità alle disposizioni normative stesse (legalità-garanzia).
L’Amministrazione del Governo Veneto Provvisorio (GVP), agisce in tutte le sue espressioni ed articolazioni attraverso l’emanazione, l’applicazione e il potere di far osservare le norme emanate.

Il principio di legalità si afferma dopo la Rivoluzione francese del 1789. Sorge come risposta al potere e all’oppressione dell’Ancien Régime, come rigetto della funzione giurisdizionale come concepita nell’idea del tempo.
Il magistrato, funzionario del Re, diceva la legge, e la legge promanava dal re.
Il rifiuto di questa idea si traduceva nella dottrina di chi credeva che il giudice dovesse essere la “bocca della legge” e di chi riteneva di ricacciare nell’oblìo di costumi medievali la “legge dei tribunali”.
Nell’idea giacobina del tempo, si afferma l’idea che la legge non possa essere interpretata dunque, se non rigidamente e in maniera letterale.
La concezione del giudice come mero tramite della regola è sopravvissuta fino ai giorni nostri, perdendosi però il significato partigiano e giacobino della funzione giurisdizionale, e affermandosi un significato universale: il principio di legalità esprime oggi una scelta politica in base alla quale la libertà viene limitata nella misura essenziale per assicurare la pace.
Storicamente, limiti rigidi sono stati imposti alla funzione giurisdizionale, a vantaggio del legislatore, rappresentante del popolo, che non può nuocere a sé stesso.
La fiducia illuministica nella ragione dell’uomo si concretizza poi nel pensiero che la legge, in quanto traduzione materiale di principi naturali, è cosa intrinsecamente giusta, e che la certezza dello strumento-legge deve essere massima.