GLOSSARIO

SOGGETTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

SOGGETTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Sono soggetti del diritto internazionale:

La soggettività internazionale di altri enti è, invece, controversa: parte della dottrina e gran parte della comunità internazionale la riconosce al Sovrano Militare Ordine di Malta, mentre la maggioranza della dottrina la esclude per i popoli in sé e per le organizzazioni non governative.

La soggettività internazionale degli stati – i soggetti più importanti del diritto internazionale – non deriva da un atto di riconoscimento ma direttamente dall’ordinamento il quale, conformemente al principio di effettività, si limita a prendere atto dell’esistenza, in via di fatto, di uno Stato, attribuendogli automaticamente la soggettività. In particolare, secondo l’art. 1 della Convenzione di Montevideo, sottoscritta nel 1933, uno Stato è soggetto di diritto internazionale per il solo fatto di possedere:

  • una popolazione permanente;
  • un territorio definito;
  • un governo (nel senso di un potere di governo esercitato in modo esclusivo);
  • la capacità di intrattenere rapporti con altri stati.

Conseguentemente l’art. 3 della Convenzione chiarisce che: “L’esistenza politica di uno Stato è indipendente dal riconoscimento degli altri Stati”, mentre in passato si riteneva che fosse tale riconoscimento a far sorgere la soggettività internazionale di uno stato. Oggi, dunque, il riconoscimento degli altri stati non ha più valore giuridico ma solo politico.

RECIPROCITA’ – PRINCIPIO DI RECIPROCITA’ – (DIRITTO)

“Siamo più propensi a dire di sì a coloro dai quali abbiamo già ricevuto qualcosa in cambio”
con queste parole Robert Cialdini descrive il principio di reciprocità.
22 lug 2023

Quando manca reciprocità?
Chiedere senza dare è un modo subdolo di dominare il prossimo.
La reciprocità non è un obbligo, naturalmente.
In teoria, una coppia può funzionare anche senza, a patto che entrambe le parti siano a proprio agio nei rispettivi ruoli.

PRINCIPIO DI RECIPROCITA’ (DIRITTO)

Il principio di reciprocità, in diritto a livello internazionale, costituisce una figura di ritorsione e di dissuasione, e come tale venne assunto nella vigente codificazione italiana del 1942.

Oggi esso viene valutato[1] come un principio di giustizia commutativa a livello internazionale, non disgiunto dal principio di premialità, quale stimolo e invito ad altri ordinamenti a modificare la loro legislazione in senso più liberale. La reciprocità, ancora oggi, può ispirare in ordinamenti stranieri, specie in quelli democratici, comportamenti virtuosi, mediante stimolo all’abrogazione di norme discriminatorie nei confronti dello straniero.

La norma che enuncia il principio di reciprocità nell’ordinamento giuridico italiano è riportata nell’articolo 16 delle disposizioni preliminari al codice civile italiano, denominate anche disposizioni sulla legge in generale e comunemente note come preleggi.

L’articolo 16 (Trattamento dello straniero) recita letteralmente:

«1. Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali.

  1. Questa disposizione vale anche per le persone giuridiche straniere.»

diritti civili cui si riferisce l’articolo 16 preleggi sono i diritti e le libertà relativi ai normali rapporti di diritto privato nel campo della proprietà, delle successioni, del possesso, delle obbligazioni e dell’economia[2].

Tale norma condiziona la capacità giuridica dello straniero in Italia: essa infatti sottopone alla condizione della verifica positiva di pari trattamento del cittadino italiano, nello Stato estero di cui lo straniero sia cittadino, la possibilità per tale straniero di esercitare in Italia i diritti civili, e cioè a titolo meramente esemplificativo esser soggetto di diritti, agire in giudizio, contrarre obbligazioni, concludere negozi giuridici, e quindi tra l’altro anche acquistare un immobile in territorio italiano.

La norma, pur essendo collocata in ambito privatistico, ha finalità manifestamente pubblicistiche, anche se in relazione ad attività essenzialmente privatistiche quali quelle consistenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale da parte dello straniero. Gli obiettivi della norma sono comunque di carattere pubblico, e si rinvengono chiaramente nella funzione della tutela, da parte dello Stato, dei propri cittadini all’estero.

Pertanto, affinché si possa concretamente verificare la reciprocità, è indispensabile l’esame della concreta applicazione di una normativa o della prassi dello Stato estero, per poter comprendere quale livello di discriminazione, ammesso che discriminazione vi sia, venga praticato dallo Stato estero nei confronti del cittadino italiano.

Tipologia

La dottrina distingue tradizionalmente, a seconda dell’ambito di applicazione, in:

  1. reciprocità diplomatica;
  2. reciprocità legislativa;
  3. reciprocità di fatto.
  • La reciprocità diplomatica, detta anche convenzionale, deriva da trattaticonvenzioni internazionali che regolino i rapporti tra i Paesi contraenti e attribuiscano dei diritti ai rispettivi cittadini; tali trattati o convenzioni possono a loro volta prevedere una condizione di reciprocità per l’attribuzione di taluni diritti, ma se, come avviene nella maggior parte dei casi, non sia prevista alcuna condizione di reciprocità in essi, il trattato si applicherà direttamente, senza più implicare alcun controllo e verifica della reciprocità.
  • La reciprocità legislativa viene verificata mediante un confronto tra le legislazioni di due o più Stati, onde rilevare la non discriminazione dei cittadini del proprio Stato nell’altro Stato, rispetto al godimento dei diritti attribuiti da quest’ultimo ai suoi cittadini.
  • La reciprocità di fatto implica non solo un confronto teorico tra le diverse legislazioni agli stessi fini di quanto ora detto, ma anche e soprattutto della prassi, mediante l’esame della concreta circostanza che non sussista effettiva discriminazione nei confronti dei cittadini del proprio Stato nell’altro Stato, nell’applicazione delle norme e delle prassi di quest’ultimo.

Applicazione

Il confronto, necessario spesso per l’applicazione, può atteggiarsi in due modi:

  1. a) verifica punto per punto: gli istituti e le materie, nonché la regolamentazione degli stessi, devono corrispondere in pieno, e non risulterà verificata la condizione di reciprocità per quegli aspetti che divergano dalla corrispondenza piena;
  2. b) verifica generica: è richiesto, perché possa dirsi verificata la condizione di reciprocità, una sufficiente somiglianza tra le discipline degli Stati posti a confronto.

La verifica di fatto e punto per punto è il criterio per lo più utilizzato dal Ministero degli affari esteri, cui l’articolo 49 del D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200 (legge consolare) attribuisce la facoltà di rilascio di “attestazioni concernenti leggi e consuetudini” nello Stato estero, e cui l’articolo 1 comma 1 del D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394 attribuisce il compito di comunicare, a richiesta:

«ai notai ed ai responsabili dei procedimenti amministrativi che ammettono gli stranieri al godimento dei diritti in materia civile i dati relativi alle verifiche del godimento dei diritti in questione da parte dei cittadini italiani nei Paesi d’origine dei suddetti stranieri.»

La norma di cui all’articolo 16 delle preleggi è da ritenersi tuttora vigente, anche perché mai espressamente abrogata da alcuna disposizione sopravvenuta.

Il suo campo di applicazione, però, si è andato via via restringendo, a seguito di norme successive che ne hanno delimitato l’operatività a casi sempre più marginali: è il caso della Costituzione della Repubblica Italiana, della legge 31 maggio 1995 n. 218 di riforma del diritto internazionale privato italiano, dei provvedimenti sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero di cui dapprima alla legge 6 marzo 1998 n. 40, indi al d,lgs 25 luglio 1998 n. 296, con le importanti modifiche di cui alla legge 30 luglio 2002 n. 189 (cosiddetta legge Bossi-Fini) e del succitato D.P.R. n. 394/1999, modificato e integrato dal regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 14 settembre 2011 n. 179.[3]

Sulla sua vigenza e compatibilità con la Costituzione della Repubblica Italiana non ebbe comunque dubbi neanche la Corte costituzionale (sentenza n. 11 del 21 marzo 1968).

Tra i trattati sottoscritti dall’Italia, i quali hanno avuto per effetto di escludere l’operatività del principio di reciprocità nelle fattispecie ivi previste, vanno annoverati i trattati CEE/CE/UE, il trattato Spazio economico europeo (SEE), la Convenzione di New York del 28 settembre 1954 (per gli apolidi) e la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (per i rifugiati), nonché la maggior parte dei trattati e degli accordi di commercio internazionali.

Sono esclusi dal campo di applicazione dell’articolo 16 prel. i cosiddetti diritti politici (diritto di elettorato attivo e passivo, diritto di accesso ai pubblici uffici, diritto di accesso alle cariche elettive, diritto di associazione a fini politici), conferiti dalla legge solo ai cittadini dello Stato, salve poche eccezioni concernenti (in genere) il settore amministrativo o politico locale.

Si osserva[4] che la formula “diritti civili” è generalmente convertita in “capacità giuridica di diritto privato”, in tal modo riferendola all’idoneità a essere titolari di diritti e di doveri, di libertà e di facoltà, che rientrano nella sfera dei rapporti privati, sottolineando l’estraneità, alla norma di cui all’articolo 16 preleggi, dei diritti politici.

Lo straniero di cui parla la norma è, con tutta evidenza, colui che non possiede la cittadinanza italiana, se persona fisica, o la nazionalità italiana, se persona giuridica.

Tuttavia, l’adesione ad accordi internazionali ha sottratto alla definizione di straniero gran parte dei continentali europei, mentre accordi e leggi interne hanno sottratto all’operatività della condizione di reciprocità, pur permanendo la qualifica di straniero, un’altra grande parte di soggetti.

Presupposti

In effetti, l’applicazione della norma è oggi molto limitata dai seguenti fattori:

1) l’appartenenza alla Unione europea della maggior parte degli Europei ne impedisce di diritto l’applicazione nei confronti dei cittadini dell’Unione stessa: articolo 52 del trattato di Roma istitutivo della CEE, oggi articoli 49 e seguenti del trattato di Lisbona (testo consolidato); articoli 2, 3 e 6 del trattato di Maastricht (nel testo consolidato di Lisbona), ove tra l’altro – articolo 9 – si enuncia per la prima volta la comune “Cittadinanza dell’Unione europea”, conferita ai cittadini dei paesi membri della UE in aggiunta alla loro cittadinanza nazionale (quindi, ogni cittadino di uno Stato dell’Unione è oggi concittadino di ogni cittadino di altro Stato dell’Unione);

2) l’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE), vigente tra l’Unione europea e tre dei quattro Stati dell’Associazione europea di libero scambio (AELS), precisamente NorvegiaIslanda e Liechtenstein (esclusa quindi la Svizzera), parifica in pratica i cittadini di questi tre Stati EFTA aderenti allo SEE ai cittadini dell’Unione europea, escludendo quindi tra l’altro la necessità che sia verificata o meno la reciprocità per l’ammissione dei cittadini di questi Paesi al godimento dei diritti civili in Italia;

3) la verifica della condizione di reciprocità non si applica neanche ai cittadini stranieri cittadini di Paesi non UE e non SEE, purché siano regolarmente soggiornanti in Italia, titolari di carta di soggiorno, ovvero titolari di permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo o per l’esercizio di un’impresa, nonché ai relativi familiari in regola con le norme per il soggiorno, secondo la normativa sull’immigrazione sopra citata;

4) la verifica non si applica neanche, in base al decreto legislativo 6 febbraio 2007 n. 30, ai familiari (cittadini non UE) di cittadini UE] (e anche di cittadini SEE, di cittadini della Repubblica di San Marino e di cittadini della Svizzera), che soggiornino in Italia alle condizioni previste da tale decreto;

5) la verifica non si applica né agli apolidi (articolo 7 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954, resa esecutiva in Italia con legge 1º febbraio 1962 n. 306), anche perché non essendo costoro cittadini di alcuno Stato non potrebbe esserci alcuna comparazione, né si applica ai soggetti aventi la qualifica di rifugiato (articolo 7 paragrafo 2 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo statuto dei rifugiati, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 24 luglio 1954 n. 722), sempreché tali soggetti risultino regolarmente residenti in territorio italiano da almeno tre anni;

6) secondo alcuni autori[5] essa non si applicherebbe neanche agli “italiani non appartenenti alla Repubblica” di cui all’articolo 51 comma 2 della Costituzione della Repubblica Italiana;

7) essa inoltre non si applica neanche ai cittadini svizzeri che fissino la loro residenza principale in Italia in base agli Accordi bilaterali tra Svizzera e Unione europea, e specificamente all’Accordo bilaterale sulla libera circolazione delle persone (ALC) firmato il 21 giugno 1999 a Lussemburgo tra la Comunità europea e la Svizzera, reso esecutivo in Italia con legge 15 novembre 2000 n. 364.

Ricadono dunque nella previsione dell’articolo 16 preleggi tutti gli altri stranieri, non cittadini di Paesi dell’Unione europea, non cittadini di Paesi aderenti allo SEE, non familiari dei precedenti, non apolidi, non rifugiati, o non regolarmente soggiornanti in Italia secondo quanto previsto dalle leggi sull’immigrazione e relativi regolamenti, come sopra, o ivi soggiornanti con motivazioni diverse da quelle previste dalle predette leggi per l’esclusione della verifica della condizione di reciprocità.

I cittadini svizzeri, in base all’Accordo di cui sopra, e contrariamente ai cittadini degli altri Paesi non UE e non SEE, godono di un immediato ed effettivo diritto soggettivo al soggiorno nei Paesi UE/SEE; ma, finché essi non fissino la propria residenza principale in Italia, anche a prescindere dalle motivazioni prescritte dalle leggi italiane sull’immigrazione che si applicano agli altri cittadini stranieri, devono sottostare alla verifica della reciprocità per l’ammissione al godimento dei diritti civili in [Italia.

La verifica negativa della reciprocità ha come conseguenza, per lo straniero, un vero e proprio deficit di capacità giuridica.

Si ritiene preferibile atteggiare il deficit di capacità derivante allo straniero dalla verifica negativa della condizione di reciprocità come incapacità giuridica speciale, la quale provoca l’inidoneità, per il soggetto incapace, a esser parte di una specifica situazione giuridica soggettiva; alcuni esempi di incapacità giuridica speciale possono essere rinvenuti, nell’ordinamento italiano, nell’inidoneità all’adozione o a contrarre matrimonio da parte di alcuni soggetti dell’ordinamento, altrimenti dotati di capacità giuridica. L’incapacità giuridica speciale non intacca comunque la capacità giuridica generale che si acquista al momento della nascita (articolo 1 codice civile) e si estingue con la morte della persona, permanendo durante tutta la vita della persona.

La conseguenza di questa incapacità giuridica speciale, secondo una parte della dottrina, sarebbe la nullità del negozio giuridico che eventualmente lo straniero avesse comunque stipulato, con le conseguenze della rilevabilità d’ufficio, dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità, dell’insanabilità del vizio; ferma restando però, nel caso di acquisti immobiliari, la previsione di cui all’articolo 2652 comma 6 del codice civile.

Si è affermata in tempi più recenti[6] la teoria secondo la quale il negozio giuridico, comunque stipulato dallo straniero nonostante l’assenza di condizione di reciprocità, non sia affetto da nullità, né assoluta né relativa, ma solo da inefficacia, figura ritenuta più aderente e più idonea per la qualificazione di una simile fattispecie con connotazioni di internazionalità.

 

REGISTRARE DI NASCOSTO PER DOTARSI DI PROVE

Registrazioni di nascosto a colleghi e datore di lavoro: valgono come prova

Il lavoratore, a determinate condizioni, può usare strumenti di registrazione audio sul luogo di lavoro per tutelarsi contro le dedotte condotte vessatorie del datore di lavoro anche travalicando i limiti del diritto alla riservatezza

  • Registrazioni occulte colleghi e datore di lavoro
  • Vessazioni sul luogo di lavoro: il caso
  • Ammissione delle prove
  • Testo integrale dell’ordinanza del tribunale di Cassino

Registrazioni occulte colleghi e datore di lavoro

Al lavoratore è riconosciuto il diritto a costituirsi mezzo di prova contro il datore di lavoro in una causa futura se le registrazioni siano effettuate con il genuino intento di tutelare la propria posizione lavorativa e procurarsi una fonte di prova da utilizzare nel processo.

È quanto statuito dal Tribunale di Cassino – Sezione Lavoro, con ordinanza del 18.07.2022 (testo in calce).

Vessazioni sul luogo di lavoro: il caso

Nella vicenda in oggetto, il lavoratore adiva il Tribunale ordinario, in funzione di Giudice del Lavoro, deducendo di aver patito condotte vessatorie ed illegittime da parte del datore di lavoro.

A sostegno di quanto affermato, il lavoratore produceva, tra le altre fonti di prova, delle registrazioni audio raccolte per il mezzo del telefono cellulare che il ricorrente aveva usato all’interno della sede di lavoro.

Si costituiva in giudizio la difesa della ditta datoriale, contestando gli assunti del ricorrente e chiedendo si dichiarasse l’inammissibilità delle predette registrazioni fonografiche in quanto raccolte in violazione dei precetti di cui al documento sottoscritto dal lavoratore quale titolare del trattamento dei dati personali ex art. 29 GDPR 679/2016, ritenendo sussistente, peraltro, il reato di violazione della privacy di cui all’art. 167 del Codice della privacy.

Ammissione delle prove

Il Tribunale di Cassino, Giudice del Lavoro, ha osservato che la prova raccolta dal lavoratore con la fonoregistrazione a mezzo del telefono cellulare può validamente essere prodotta nel processo lavoristico alla luce del principio secondo cui la finalità difensiva della registrazione dei colloqui tra dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro esclude la necessità di chiedere il consenso dei presenti.

Ciò con la preminente finalità di contemperare la norma sul consenso del trattamento dei dati personali con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.

Ne discende la assoluta legittimità della condotta del lavoratore che abbia effettuato le registrazioni occulte se pertinenti alle tesi difensive e non eccedenti le connesse finalità (Cass. Civ. 12534/2019; Cass. Civ. 11322/2018; Cass.Civ. 27424/2014).

Il Giudice del Lavoro, dunque, nell’ ammettere al compendio probatorio del giudizio le registrazioni prodotte dal ricorrente – in un’ottica di bilanciamento tra diritti costituzionalmente protetti – ha riconosciuto prevalenza, rispetto al diritto dell’interessato ad opporsi al trattamento dei dati personali – cosiddetto “ius arcendi” – al trattamento dei dati stessi qualora effettuato per ragioni di giustizia.

Il Giudice ha evidenziato, tra l’altro, che, sotto il profilo normativo, tale impostazione trovava collocazione nell’art. 47 del D.Lgs 196 del 2003 e trova attuale riconoscimento in seno all’art. 2-undecies del medesimo decreto, come introdotto dall’articolo 2 comma 1 lett. f del D. Lgs 10.08.2018 n. 101, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale dai dettami del Regolamento UE 2016/679.

DIRITTO POTESTATIVO

DIRITTO POTESTATIVO

Il diritto potestativo è la situazione giuridica soggettiva che consiste nell’attribuzione di un potere a un soggetto allo scopo di tutelare un suo interesse.

Si contrappone, pertanto, alla potestà nella quale il potere è attribuito al soggetto a tutela di un interesse altrui. Il diritto potestativo è una situazione giuridica soggettiva propria del diritto privato, mentre la potestà, pur essendo presente anche nel diritto privato, è tipica del diritto pubblico.

A fronte del diritto potestativo del soggetto attivo, il soggetto passivo del rapporto giuridico si trova in una posizione di soggezione. Va però precisato che l’ordinamento giuridico può attribuire al soggetto passivo una tutela nei confronti del potere altrui, sicché la sua situazione giuridica è qualcosa di più di una mera soggezione.

SOGGEZZIONE – IN DIRITTO

SOGGEZZIONE

Con soggezione, in diritto, si indica la situazione giuridica soggettiva del soggetto di diritto che, pur non essendo gravato dal dovere di tenere un certo comportamento, deve tuttavia subire gli effetti giuridici dell’esercizio del potere altrui.

Affinché ci sia presenza di un potere e della correlativa soggezione non è necessario che una persona sia investita di autorità, basta che si trovi comunque in situazione tale da far subire ad un’altra persona gli effetti dell’esercizio del proprio potere. Ad esempio, l’articolo 874 del codice civile italiano prevede che se Tizio costruisce un muro sul confine, Caio, proprietario del terreno confinante, ha il potere di chiedere la comunione del muro. In questo caso, Tizio si trova in una situazione di soggezione, giacché Caio, qualora avanzi (validamente) tale richiesta, farà sorgere la comunione e Tizio non potrà che subire tale effetto.

Un esempio di soggezione è quello del minorenne nei confronti dei genitori (o di chi ne fa le veci) che esercitano un potere nel suo interesse (si tratta, quindi, più precisamente di un potere-dovere, ossia una potestà). Il genitore, infatti, può prendere decisioni e compiere atti nell’interesse del minore che questi, in quanto tale, non potrebbe compiere ed i cui effetti può solo subire.

Mancando l’obbligo o, più in generale, il dovere di tenere un certo comportamento, non ha senso parlare di violazione della soggezione (e di lesione del corrispondente potere) come invece si parla di violazione del dovere (e di lesione del corrispondente diritto soggettivo).

SOGGETTO DI DIRITTO

SOGGETTO DI DIRITTO

Un soggetto di diritto indica un soggetto passibile di essere titolare di rapporti giuridici attivi e/o passivi.

La soggettività giuridica è correlata alla capacità giuridica, intesa come idoneità a essere titolare di diritti e doveri o più in generale di situazioni giuridiche soggettive. Tuttavia, una diffusa teoria vede una forma di soggettività giuridica, seppur di grado minore, anche in quei casi in cui l’ordinamento attribuisce a un’entità la titolarità di certe situazioni giuridiche soggettive, come quando gli riconosce una certa autonomia patrimoniale, ossia la separazione, anche se non completa, tra il patrimonio a essa riferibile e quello di altre entità.

Non è invece essenziale alla soggettività giuridica la capacità di agire, intesa come idoneità di un soggetto giuridico a porre in essere atti giuridici validi. Possono esserci, infatti, soggetti di diritto privi di capacità di agire, sicché per essi gli atti giuridici devono essere posti in essere da altri soggetti (si pensi ai figli minorenni per i quali agiscono, di regola, i genitori).

Va rilevato che l’ordinamento giuridico preesiste ai soggetti di diritto, nel senso che è l’ordinamento stesso a stabilire quali sono gli esseri o le entità del mondo reale cui è attribuita la soggettività.

PERSONE GIURIDICHE

PERSONE GIURIDICHE

Possono essere soggetti di diritto anche le persone giuridiche (o, secondo una vecchia terminologia, enti morali), complessi organizzati di persone e di beni ai quali l’ordinamento giuridico attribuisce la capacità giuridica.

La persona giuridica è costituita da:

  • un elemento materiale (o substrato sostanziale) che può a sua volta consistere in un insieme di individui (nelle corporazioni) o un patrimonio (nelle fondazioni) ordinati a uno scopo;
  • un elemento formale, il riconoscimento. Questo può essere attribuito dall’ordinamento:
    • con una norma generale che riconosce tutte le persone giuridiche in possesso di determinati requisiti;
    • con una norma posta appositamente per una determinata persona giuridica;
    • con un apposito provvedimento, posto in essere per una determinata persona giuridica.

In generale la capacità giuridica riconosciuta alla persona giuridica (personalità giuridica) è meno estesa di quella riconosciuta alla persona fisica, poiché la persona giuridica non può essere parte di quei rapporti giuridici che, per loro natura, possono intercorrere solo tra persone fisiche (l’esempio tipico è rappresentato dai rapporti familiari).

Le persone giuridiche hanno un’organizzazione, con una struttura organizzativa articolata in uffici; tra gli uffici si distinguono quelli che hanno come titolari (o, secondo altra ricostruzione teorica, sono) organi della persona giuridica e compiono gli atti giuridici imputati alla stessa. Un’organizzazione, tuttavia, è posseduta anche da altri enti, privi dell’elemento formale del riconoscimento: se l’ordinamento attribuisce a questi enti la titolarità di situazioni giuridiche soggettive, secondo la teoria sopra ricordata si deve ritenere che essi, pur non essendo persone giuridiche, posseggano comunque una loro soggettività giuridica. Anche gli enti privi di personalità giuridica hanno “organi” che, tuttavia, secondo la prevalente dottrina, vanno tenuti distinti dagli organi propriamente detti, delle persone giuridiche, in quanto non imputano all’ente gli atti giuridici compiuti ma solamente il risultato della loro attività; per distinguerli Massimo Severo Giannini li denomina officia.

SOGGETTIVITA’ INTERNAZIONALE

SOGGETTIVITA’ INTERNAZIONALE

La soggettività internazionale degli stati – i soggetti più importanti del diritto internazionale – non deriva da un atto di riconoscimento ma direttamente dall’ordinamento il quale, conformemente al principio di effettività, si limita a prendere atto dell’esistenza, in via di fatto, di uno Stato, attribuendogli automaticamente la soggettività.

In particolare, secondo l’art. 1 della Convenzione di Montevideo, sottoscritta nel 1933, uno Stato è soggetto di diritto internazionale per il solo fatto di possedere:

  • una popolazione permanente;
  • un territorio definito;
  • un governo (nel senso di un potere di governo esercitato in modo esclusivo);
  • la capacità di intrattenere rapporti con altri stati.

Conseguentemente l’art. 3 della Convenzione chiarisce che: “L’esistenza politica di uno Stato è indipendente dal riconoscimento degli altri Stati”, mentre in passato si riteneva che fosse tale riconoscimento a far sorgere la soggettività internazionale di uno stato.
Oggi, dunque, il riconoscimento degli altri stati non ha più valore giuridico ma solo politico.

ABITAZIONE – DIRITTO DI …

Il diritto di abitazione

L’abitazione è un diritto reale di godimento su cosa altrui con il quale il titolare può abitare una casa limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia

  • La famiglia per il diritto di abitazione
  • Diritto di abitazione: limiti
  • Il diritto di abitazione è pignorabile?
  • Come si costituisce il diritto di abitazione
  • Diritto di abitazione: valore
  • Il coniuge separato
  • Quando decade il diritto di abitazione

La famiglia per il diritto di abitazione

Il diritto d’abitazione è regolato dagli articoli 1022 e seguenti del codice civile, che ne dettano la disciplina e i limiti.

Trattandosi di un diritto teso a soddisfare gli interessi del titolare e dei suoi familiari, prima di addentrarci nell’analisi dell’istituto è opportuno chiarire quale sia la nozione di famiglia rilevante per l’esercizio dello stesso. A dircelo è l’articolo 1023 del codice civile, che precisa che in tale nozione vanno ricompresi anche i figli nati dopo che è cominciato il diritto, quantunque nel tempo in cui il diritto è sorto la persona non avesse contratto matrimonio, ed anche i figli adottivi, i figli riconosciuti e gli affiliati, anche se l’adozione, il riconoscimento o l’affiliazione sono seguiti dopo che il diritto era già sorto. Si comprendono, infine, le persone che convivono con il titolare del diritto per prestare a lui o alla sua famiglia i loro servizi.

Diritto di abitazione: limiti

Venendo ai limiti, possiamo rilevare innanzitutto che l’abitazione è un diritto di natura strettamente personale, il che comporta che la titolarità e il godimento dell’immobile che ne costituisce l’oggetto spettano unicamente all’habitator e alla sua famiglia, che potranno alloggiarvi limitatamente ai propri bisogni (cfr. Cass. n. 2769/1953).

Tuttavia, la destinazione dell’abitazione ai bisogni del titolare e della sua famiglia, lungi dal poter essere intesa in senso quantitativo, va letta esclusivamente come divieto di destinare la casa a utilizzazioni diverse da quelle consistenti nell’abitazione diretta da parte dell'”habitator” e dei suoi familiari (cfr. Cass., sent. 14687/2014).

Sempre con riferimento ai limiti, va poi detto che la dottrina è pressoché unanime nel riconoscere la spettanza del diritto di abitazione solo a persone fisiche, escludendo quindi le persone giuridiche, in ragione dei particolari bisogni abitativi che l’istituto tende a soddisfare.

Oggetto del diritto

È opinione comune in dottrina e giurisprudenza che il diritto di abitazione possa fare riferimento unicamente a un immobile che presenti requisiti di abitabilità, ossia idoneo a fornire un alloggio.

Inoltre, esso va esteso a tutto ciò che concorre a integrare la casa che ne è oggetto sotto forma di accessorio o pertinenza (balconi, verande, giardino, rimessa, ecc), in quanto l’abitazione non è costituita soltanto dai vani abitabili, ma anche da tutto quanto ne rappresenta la parte accessoria; in virtù del combinato disposto degli artt. 983 e 1026 c.c., il diritto in esame si estende anche alle accessioni (cfr. Cass., 2335/1981).

L’abitazione si considera affine all’uso, poiché entrambi, essendo diritti personalissimi, non si possono cedere o dare in locazione (art. 1024 c.c.), ma neppure si può ritenere l’abitazione una specificazione dell’uso avente ad oggetto un’appartamento per abitarvi: l’habitator non ha alcun diritto ai frutti e non può, a differenza dell’usuario, usare la casa in modi diversi rispetto al semplice alloggio, come adibirla a magazzino, ufficio, deposito, ecc.

Secondo l’art. 1025 c.c., l’habitator ha, inoltre, il diritto di abitare l’immobile per la porzione necessaria ai suoi bisogni e, se occupa tutta la casa, è tenuto alle spese di coltura, alle riparazioni ordinarie e al pagamento dei tributi come l’usufruttuario.

Se non raccoglie che una parte dei frutti o non occupa che una parte della casa, contribuisce in proporzione di ciò che gode (per approfondimenti sul rapporto tra usufrutto, uso e abitazione leggi la guida: I diritti di usufrutto, uso e abitazione e l’espropriazione forzata).

Il diritto di abitazione è pignorabile?

L’immobile su cui grava un diritto di abitazione può essere pignorato, tuttavia il pignoramento non può estendersi al diritto di abitazione. Quest’ultimo, infatti, è impignorabile.

Come si costituisce il diritto di abitazione

Il diritto d’abitazione ha natura reale e può essere costituito mediante testamento, usucapione o contratto, per il quale è richiesta ad substantiam la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata ai sensi dell’art. 1350 n. 4 c.c. (cfr. Cass. n. 4562/1990).

Il codice civile prevede, all’articolo 540, un’unica ipotesi di costituzione legale del diritto di abitazione precisando che al coniuge del defunto, anche quando questi concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano. Ciò avviene per tutelare le abitudini di vita del coniuge rimasto in vita ed evitargli l’ulteriore danno, psicologico e morale, che potrebbe derivare dal dover abbandonare l’alloggio abituale.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, nel ricordare che nella successione legittima al coniuge del de cuius spettano i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano previsti dall’art. 540 c.c., ha chiarito che il valore capitale di tali diritti deve essere stralciato dall’asse ereditario per poi procedere alla divisione di quest’ultimo tra tutti i coeredi, secondo le norme sulla successione legittima, non tenendo conto dell’attribuzione dei suddetti diritti secondo un meccanismo assimilabile al prelegato (cfr. Cass., SS.UU. 4847/2013).

Diritto di abitazione: valore

A tale ultimo proposito va precisato che il valore del diritto di abitazione, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 14406/2018, può essere calcolato avvalendosi dei criteri utilizzati per determinare il valore dell’usufrutto. Ciò in quanto “le utilità ritraibili dall’usufruttuario appaiono sostanzialmente identiche a quelle che puà trarre l’abitatore“.

Il coniuge separato

La costituzione ex lege del diritto di abitazione sulla casa coniugale in capo al coniuge del defunto ha fatto sorgere dei dubbi circa l’estensione di tale previsione anche al coniuge separato.

A risolvere le controversie interpretative sul tema è intervenuta la Corte di cassazione, che ha stabilito che “la ratio della disposizione codicistica è da rinvenire non tanto nella tutela dell’interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell’interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, delle relazioni sociali e degli status simbols goduti durante il matrimonio“. Di conseguenza, in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare al momento dell’apertura della successione fa venir meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione del diritto reale di abitazione al coniuge superstite (cfr. Cass. n . 22456/2014).

Quando decade il diritto di abitazione

Resta infine da dire che il diritto di abitazione perdura sino a che non si verifica uno di tali eventi:

  • morte del titolare
  • rinuncia del titolare
  • scadenza del termine previsto dall’atto con il quale è stato costituito
  • perimento del bene
  • prescrizione

Si precisa che si ha consolidamento quando si riuniscono in capo alla stessa persona sia il diritto di abitazione che il diritto di proprietà.

INTEGRITA’ TERRITORIALE

Deriva direttamente dal carattere esclusivo della sovranità territoriale.

Principio fondamentale dell’ordinamento internazionale, richiamato dall’art. 2, comma 4o, Carta Onu e da numerosi atti internazionali o carte istitutive di organizzazioni internazionali, che sancisce la inviolabilità delle frontiere, nel senso che sono ammissibili modificazioni territoriali unicamente con mezzi pacifici.

Secondo la Dichiarazione dell’Assemblea generale delle N.U. del 1970, sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati, ricompresa nell’Atto finale di Helsinki: le frontiere possono essere modificate, conformemente al diritto internazionale, con mezzi pacifici e per via di accordo; gli Stati considerano reciprocamente inviolabili le loro frontiere, si astengono da qualsiasi atto incompatibile con i principi e i fini della Carta delle N.U. contro l’integrità territoriale.

Tali principi sono dotati di un’importanza primordiale e, in conseguenza, si applicano egualmente e senza riserve, ciascuno venendo interpretato alla luce degli altri.